Psichiatra e Psicoterapeuta

Il mondo dei fobici

disturbi fobiciQuesto sarà il primo di una serie di articoli nei quali si cercherà di approfondire il mondo dell’esperienza personale di alcune dimensioni psicopatologiche con le relative categorie diagnostiche. Il tema di fondo è quello di considerare insufficienti le categorie correntemente utilizzate dalla nosografia psichiatrica attuale per la comprensione dell’esperienza dei pazienti. Cercare di articolare un disturbo psichiatrico in termini di vissuto personale e di esperienza di sé  può essere molto più utile ed efficace nella pratica terapeutica. In questo primo articolo, partendo dalle manifestazioni cliniche dei pazienti fobici, cercheremo di descrivere le specifiche modalità di dar forma all’esperienza del loro mondo in base alle proprie storie di vita e ai propri significati personali, cercando di tenere sempre a mente che dietro queste categorie diagnostiche vi sono individui  in prima persona, con i loro vissuti e le loro complessità psicologiche.

La  clinica

Le principali manifestazioni cliniche dei pazienti fobici sono rappresentate dai disturbi d’ansia:

Questi hanno una prevalenza nella popolazione che oscilla dal 15 al 30 % (che vuol dire che tra il 15 e il 30 % della popolazione soffrirà di un disturbo d’ansia nel corso della vita)

I disturbi d’ansia che più frequentemente si incontreranno nella pratica clinica sono:

  • disturbo d’ansia generalizzata
  • disturbo di panico
  • agorafobia
  • fobie specifiche
  • fobia sociale

Innanzitutto è fondamentale sottolineare quanto sia importante un corretto inquadramento diagnostico. Infatti a volte i disturbi d’ansia (in particolare il disturbo d’ansia generalizzata) possono manifestarsi con sintomi somatici rilevanti e questo ci deve portare ad escludere patologie mediche che possano sottendere i quadri ansiosi. La patologie mediche più implicate nel manifestare quadri simili ad un disturbo d’ansia sono le disfunzioni tiroidee (in particolare  l’ipertiroidismo), alcune patologie cardiache (alcuni quadri di cardiopatia, che vanno dalle ischemie alle aritmie, agli infarti veri e propri, possono mimare sintomi ansiosi); alcune patologie respiratorie (che possono andare dalle insufficienze respiratorie alle embolie polmonari). In questi casi una corretta diagnostica differenziale è molto importante fin dalle prime fasi d’insorgenza del quadro clinico.

Il disturbo d’ansia generalizzata è caratterizzato da preoccupazioni eccessive e immotivate che possono riguardare diversi aree della propria vita (professionale, aspetti economici, problemi familiari). Nelle persone con questa sintomatologia ogni piccolo incoveniente può diventare fonte di preoccupazione, con il susseguirsi di pensieri negativi che riguardano svariati ambiti (dagli aspetti professionali, a preoccupazioni economiche o familiari). Questa sintomatologia relativa alla sfera prettamente ideativa, si accompagna regolarmente a manifestazioni somatiche che vanno dalla tachicardia (o le palpitazioni) alla sudorazione eccessiva, dalla minzione frequente alle difficoltà nella respirazione o deglutizione, dalla facile affaticabilità all’irrequitezza, dai disturbi del sonno alle difficoltà di concentrazione.

Le donne ne sono affette più frequentemente degli uomini, ed è un disturbo psichiatrico che tende frequentemente a recidivare (con il rischio di cronicità) dopo un periodo di trattamento farmacologico. Il 60% dei pazienti dopo la sospensione di un trattamento farmacologico va incontro a ricadute in un follow up a 5 anni.

Il disturbo di panico è, in sostanza, caratterizzato dall’insorgenza degli attacchi di panico.

Partiamo quindi dalla sua descrizione clinica. L’attacco di panico lo si definisce come un episodio circoscritto di paura o disagio intensi, solitamente accompagnato da un senso di pericolo imminente (naturalmente in assenza di un vero pericolo), e da una serie di sintomi fisici, come palpitazioni, sudorazione, tremori, sensazione di dispnea o di soffocamento (che i pazienti spesso descrivono come fame d’aria) , dolore o senso di costrizione toracica, nausea o disturbi addominali (tipo colon irritabile),  vertigini, sensazione d’instabilità, sbandamenti,  brividi o vampate di calore,…). Tale sintomatologia somatica si accompagna frequentemente a sintomi puramente mentali come  paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire: la sensazione spesso è quella di stare per avere un attacco cardiaco o un ictus. A volte possono anche essere presenti vissuti di derealizzazione, che sono caratterizzati dalla sensazione di una angosciosa trasformazione del mondo esterno, che non viene quasi riconosciuto come ordinario o usuale. Inizialmente l’attacco di panico esordisce all’ improvviso, è tipicamente inatteso, dura in media 5-10 minuti (raramente supera la mezz’ora) e non è legato a fattori scatenanti situazionali.  In seguito invece possono diventare situazionali: in questi casi sono scatenati dall’esposizione a determinati stimoli critici o situazioni  particolari. Le situazioni critiche più frequenti sono: uscire da casa da soli; guidare l’auto, in particolare quando ci si deve allontanare dalla propria abitazione, o quartiere o città (una delle situazioni più temute è guidare in autostrada);  prendere mezzi pubblici; stare in luoghi chiusi o locali molto affollati (come un centro commerciale, un supermercato). In definitiva sono vissute come problematiche tutte quelle situazioni  dalle quali è difficile allontanarsi o fuggire.

Per fare diagnosi di disturbo di panico è necessario che si siano verificati almeno due episodi di panico inaspettati intervallati da un mese (o più) di almeno uno dei seguenti sintomi:

  • preoccupazione che gli attacchi possano ripetersi
  • preoccupazione circa le implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze (es. avere un attacco cardiaco, “impazzire”)
  • significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi (questa generalmente consiste nello sviluppare una serie di comportamenti di evitamento di quelle situazioni che possono innescare gli attacchi di panico)

La probabilità di sperimentare almeno un attacco di panico nel corso della vita è di circa il 30%. Il DP invece ha una prevalenza lifetime stimata tra il 3 e il 5%.

Insorge generalmente in età giovanile, le donne tendono a essere più colpite (più del doppio rispetto ai maschi).  Il disturbo di panico si associa spesso con un altro comportamento psicopatologico che è l’agorafobia.

L’agorafobia è caratterizzata dalla presenza di forte ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni in cui sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi o chiedere aiuto.  I luoghi caratteristici sono: mezzi di trasporto (treni, aerei, metropolitane); luoghi aperti (strade molto larghe, piazze, ponti…); luoghi chiusi (negozi, centri commerciali, ascensori). Sono inoltre a rischio di innescare attacchi di panico situazioni tipiche come allontanamenti da casa o stare in mezzo alla folla.

Queste situazioni vengono evitate, affrontate con notevole ansia, affrontate soltanto in presenza di un accompagnatore o di un familiare.

Le fobie specifiche sono invece caratterizzate da stati di preoccupazione e ansia marcata e persistente rispetto ad oggetti o situazioni ben definiti e circoscritti: tali oggetti (fobici) e situazioni tendono ad essere evitati o mal tollerati in quanto fonti di significative reazioni ansiose.

Vengono classificate in 4 sottotipi diagnostici :

  • Animali (insetti, uccelli, serpenti…)
  • Ambiente naturale (temporali, altezze, acqua…)
  • Sangue/Infezioni/Ferite (caratterizzata da un’importante risposta vaso-vagale)
  • Situazionale (trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare, luoghi chiusi)

Rappresentano il terzo disturbo psichiatrico (dopo la depressione e l’abuso di alcool), con una prevalenza intorno al 10% della popolazione generale, e tendono ad insorgere fin dall’età infantile (con due picchi di insorgenza, intorno ai 5 e ai 10 anni).

Esperienza e significato

Andiamo ora ad approfondire il ‘mondo della vita’ dei fobici e la loro dimensione di significato dell’esperienza vissuta . La loro esperienza prende forma dal doversi costantemente confrontare con una dimensione emotiva che fa fatica ad essere articolata, e quindi ad essere compresa. In questa difficoltà nell’appropriarsi dell’ esperienza del vivere, sostanzialmente tendono a riconoscere come sintomi somatici dei vissuti che sono invece portatori di significati personali. A causa di ciò tendono a definire come patologia (attacco di panico, crisi d’ansia, agorafobia…) dei movimenti emotivi che andrebbero invece interpretati in maniera diversa, dei quali andrebbero compresi i significati piuttosto che la definizione patologica.

Partiamo quindi dalle loro storie familiari, che tendenzialmente hanno dei tratti in comune. Generalmente provengono da famiglie tipicamente ipercontrollanti. Sono famiglie che tendono a limitare l’autonomia del bambino attraverso la presentazione (immaginativa) di pericoli possibili o reali in relazione a possibili comportamenti d’esplorazione. Questa interferenza dei genitori sull’ autonomia del bambino può iniziare fin dalla prima età infantile, dove già nel gattonare si possono vedere possibili comportamenti pericolosi. Naturalmente crescendo la faccenda diventa più complessa e qualsiasi allontanamento da casa, o comunque dalla comfort zone del nucleo familiare, è ridefinito in termini di possibile pericolo: dal giocare a palla nel cortile al partecipare al campo scuola. I vari comportamenti di esplorazione, nel momento in cui tendono ad aumentare il raggio della distanza dalle figure genitoriali, sono considerati problematici, vissuti con ansia dal genitore e ridefiniti in termini di potenziale rischio per il bambino.  L’atteggiamento protettivo nei confronti del figlio si risolve spesso nello spaventarlo rispetto ad un mondo vissuto e descritto, implicitamente o esplicitamente, come pericoloso.

Un’altra modalità di accudimento frequente nelle famiglie fobiche è quella di stimolare gli atteggiamenti di autonomia senza fornire al bambino il necessario supporto emotivo. Un classico è la mamma che dice “va pure a giocare con i tuoi amici…ma bada che la mamma starà in ansia per tutto il tempo …, lo sai che la mamma ha sempre paura che ti possa succedere qualcosa! ”. Oppure il bambino che si allontana dall’ombrellone, ad un certo punto si allontana troppo e viene perso di vista, quando torna trova la mamma semisvenuta perché lo davano già per annegato dietro gli scogli.

L’affetto si esprime generalmente in cose concrete, gesti concreti: organizzargli le attività della giornata, preparare la merenda, fare sì che il figlio sia sempre in ordine, aiutarlo a fare i compiti. Vediamo mamme che fino all’età adulta sono incaricate di lavare, stirare, cucinare, per figli che magari sono già andati a vivere per conto proprio. D’altra parte ci sono figli che, anche una volta sposati, portano dalla mamma la biancheria sporca o passano da casa per prendere la roba cucinata. Nonostante questa grande attenzione e presenza costante per gli aspetti pratici nell’accudimento dei figli, l’espressione dei propri stati emotivi invece è poco rappresentata e poco incoraggiata: poiché le emozioni sono roba difficile da controllare, la gestione della vita emotiva non è semplice per i fobici e quindi l’espressione dell’emotività non è particolarmente incoraggiata nelle loro famiglie.

Questo atteggiamento genitoriale rimanda al bambino un senso di sé duplice: da una parte sviluppano un forte senso di amabilità personale, di centralità nella relazione, avendo un genitore (o entrambi) sempre molto centrato su di loro e fattivamente presente nel loro mondo; dall’altra parte vanno a formare allo stesso tempo una esperienza costitutiva di sé caratterizzata da un ricorrente senso di fragilità personale che gli deriva dal sentirsi costantemente in un mondo pericoloso senza avere le competenze emotive per affrontarlo. La loro dimensione emotiva si costituisce prevalentemente intorno all’emozione della paura, che è quella con la quale si troveranno più spesso a confrontarsi nell’arco della loro vita. E’interessante però vedere come su  questa stessa emozione, su questo tema della paura, alcuni fobici (intesi come stile di personalità) costruiscano biografie vincenti, come ad esempio i grandi esploratori o gli appassionati di sport estremi. Sono biografie che rappresentano un confronto vincente sulla dimensione della paura e sulla propria percezione di fragilità, dove viene in evidenza la capacità di liberarsi dai vincoli e affermare un proprio senso di libertà personale. Altri invece sullo stesso tema, quello della paura vissuto però in maniera passiva e problematica, costruiscono storie di vita ‘ferite’ dalla psicopatologia, dove si vedono agorafobici che per anni e anni non riescono ad uscire  da casa se non accompagnati da un familiare (generalmente moglie/marito): in questo caso il proprio senso di fragilità personale li vede soccombere rispetto al vissuto originario di un ‘mondo pericoloso’.

Infatti nelle famiglie dei fobici ‘problematici’ l’atteggiamento protettivo consiste nello spaventare il bambino rispetto ai pericoli potenziali del mondo, disincentivando i comportamenti d’esplorazione e quindi la possibilità di avere un’esperienza di vita più ricca e articolata. Questo farà si che la modalità con la quale si appropriano della propria esperienza sarà caratterizzata da un range emotivo molto ristretto (appunto perché poco articolato), e quando emozioni discrepanti escono da quel range non vengono riconosciute come tali ma come aspetti patologici, con un carattere di estraneità rispetto alla propria esperienza. Nelle storie familiari di quelli che invece diventeranno ‘esploratori’ (o comunque caratterizzati da un senso di sé pro-attivo e vincente), l’atteggiamento protettivo della famiglia li supporta nel confrontarsi con un mondo descritto sempre come pericoloso, ma , nella misura in cui si sentono emotivamente supportati dalla figure di accudimento, prevale la sicurezza in sé stessi, che si accompagna ad un forte senso di amabilità personale. Ed è proprio questa sicurezza di sé e il loro senso di amabilità personale che li portano a sentirsi in grado di sfidare pericoli, rischi e situazioni difficili. Anche in questi casi comunque, se viene a interrompersi, ad incrinarsi, il delicato equilibrio tra fiducia in sé stessi e percezione di fragilità emotiva, può emergere in qualsiasi momento della loro vita una dimensione psicopatologica, tipo attacco di panico o stati d’ansia ricorrenti.

Uno dei temi caretteristici dei fobici per far fronte alla pericolosità del mondo, è l’esigenza di tenere tutto sotto controllo, sia gli stati interni (e questo rimanda al controllo su tutti gli aspetti emotivi) , che il rapporto col ‘mondo della vita’.

In relazione alla fragilità emotiva con cui si percepiscono tenderanno a sviluppare delle buone capacità nel controllare i propri stati interni (quindi la propria dimensione emotiva), così come le relazioni interpersonali, gli accadimenti futuri, la possibilità d’imprevisti (ricordiamoci che il loro motto rimane: “il pericolo è dietro l’angolo…”).  La necessità di prevedere gli eventi (per farvi fronte nel migliore dei modi) implica la capacità di programmare il futuro per riuscire a tenere tutto sotto controllo. E queste strategie in termini pratico-razionali in genere funzionano bene (spesso li ritroviamo impegnati in attività che rispecchiano queste abilità di controllo, come attività finanziarie o attività sportive). Quando invece accade qualcosa di importante che riguarda la sfera emotiva (ad es. un innamoramento improvviso, un lutto imprevisto, la fine di una relazione affettiva… qualcosa che sfugge ai criteri della prevedibilità logico-razionale), ecco che i loro sistemi di controllo vanno in tilt. In questi casi gli attacchi di panico, o l’agorafobia o le crisi d’ansia, rappresentano la manifestazione patologica di un’esperienza emotiva che, sfuggita al controllo, fa saltare la scala della comprensione dei significati,  mette in crisi la loro capacità di controllare la propria esperienza di vita, incrina la possibilità di mantenere la propria dimensione emotiva all’interno di un range accettabile. La loro “paura di impazzire” o “paura di morire” in questi casi rappresenta l’espressione di un vissuto più originario che è quello della “paura di perdere il controllo” della situazione.

Vediamo ora come se la cavano i fobici nelle relazioni sentimentali, tenendo presente che spesso i loro momenti di scompenso psicopatologico sono sottesi da una instabilità percepita nel portare avanti delle relazioni affettive.

Il tema del controllo (sulla propria vita emotiva ma anche sulle proprie pratiche di mondo), li porterà a dare forma a relazioni sentimentali caratterizzate dalla ricerca di partner affidabili. L’affidabilità del partner corrisponde in genere a temi di protezione, nel senso che un partner per essere affidabile deve essere vissuto soprattutto come protettivo. Naturalmente il tema della ‘protezione’ può essere declinato in svariati modi, dalla solidità economica al ruolo sociale, dall’accettazione familiare alla assoluta prevedibilità dei suoi comportamenti: in molti casi protettivo vuol dire affidabile. Le caratteristiche di questi partner saranno quelle di consentir loro di costruire dei legami affettivi che siano solidi (in quanto controllabili, su cui si possa fare affidamento, e quindi protettivi), senza però essere costrittivi (diciamo che in questo senso i fobici cercano spesso la ‘quadratura del cerchio’…). Una delle caratteristiche del partner dei fobici è quella di essere soprattutto accessibile (in termini di presenza e di costante disponibilità), senza però essere costrittivo. Al fobico non importa molto di quello che pensa il suo partner, non è particolarmente interessato al suo giudizio; invece è fondamentale sapere dove stà, fisicamente, e sapere che in caso di necessità possa essere facilmente raggiungibile. Il controllo della relazione è dato spesso dal controllo degli spazi e delle distanze:  in questi casi spesso è la modifica dello spazio, in termini di ‘spazio vissuto’,  che determina l’emergenza della psicopatologia. Abbiamo spazi che si restringono come nelle crisi claustrofobiche; spazi che si dilatano, generando vissuti di panico, come nell’agorafobia per gli spazi aperti, o in relazione ad allontanamenti da casa; spazi che diventano fonte d’angoscia in relazione all’allontanamento dell’altro (quando l’altro scompare dai ‘radar’) o ad un eccessivo avvicinamento dell’altro, quando l’altro diventa costrittivo (come ad es una relazione che prende la forma di una convivenza o di un matrimonio).

Naturalmente queste dinamiche avvengono generalmente in maniera profonda e inconsapevole:  i fobici hanno una scarsa insight delle loro difficoltà emotive, così come delle dinamiche emotiva della propria esperienza. Il mondo emotivo è per loro un pianeta abbastanza sconosciuto, sicuramente poco esplorato, sul quale tendono a farsi poche domande e a fatica ne ricostruiscono i movimenti. Ed è questa inconsapevolezza, questa scarsa dimistichezza con il mondo delle proprie emozioni, a determinare gli aspetti psicopatologici.  Per esempio l’attacco di panico è un’emergenza frequente in momenti di crisi di una relazione affettiva. In questi casi  se il problema è che una relazione stia diventando troppo costrittiva, determinando un senso di costrizione/riduzione della libertà personale, questo farà sì che l’attacco di panico prenderà una forma clinica costrittiva, e sarà caratterizzato soprattutto da senso di soffocamento, costrizione toracica, difficoltà a respirare, sensazioni di fame d’aria. Al contrario quando una relazione va in crisi e l’immagine dell’altro viene percepita come perduta (e questo vuol dire la potenziale perdita di tutti quegli aspetti di protezione e controllabilità che l’altro rimandava), in questo caso l’attacco di panico avrà la forma ‘non costrittiva’ delle vertigini, del senso del terreno che si sfalda sotto i piedi, della sensazione della perdita di controllo.  In questo senso il corpo dei fobici ‘parla’, ha una forte valenza espressiva, cerca di esprimere significati che il paziente non riconosce ed è costretto a subire come qualcosa di esterno, di estraneo a sé, che riguarda appunto il mondo della psicopatologia e di cui non riesce ad appropriarsi.

In questa tendenza ad attribuire all’esterno la responsabilità del proprio stato, il mondo viene vissuto come oggettivamente pericoloso e fonte continua di pericoli reali. In questo senso la percezione di paura dei fobici è generalmente considerata legittima e difficilmente messa in discussione. I pazienti non realizzano che la loro paura è legata ad una propria percezione di fragilità e inadeguatezza emotiva rispetto alle situazioni, e sono disposti a mettere in discussione il mondo ma non sé stessi. Da questa prospettiva, in situazioni nelle quali avviene una lettura molto concreta della dinamica emotiva, si può assistere ad uno scivolamento verso una dimensione psicotica della sintomatologia, con lo sviluppo di deliri paranoidi in cui ad esempio l’Altro, nel momento in cui non è più percepito come protettivo, diventa rapidamente fonte di minaccia, e quindi potenzialmente pericoloso; così come il Mondo, nel momento in cui perde le sue caratteristiche di familiarità (ad es. per un brusco cambiamento di vita come può essere un lutto, una separazione, un cambiamento lavorativo), diventa minaccioso, fonte di pericolo, dando forma a vissuti persecutori.

La fobia sociale

Veniamo ora, per finire, alla condizione clinica conosciuta come fobia sociale (o disturbo d’ansia sociale).

La cosa interessante è che  in questo tipo di pazienti ci troviamo di fronte ad un mondo di significati abbastanza diverso rispetto al mondo d’esperienza dei pazienti fobici che abbiamo trattato finora.

Il senso di sé (l’ identità personale) dei fobici classici, quelli per capirci con sintomi agorafobici o attacchi di panico, è centrato sui propri stati interni, in particolare in termini di attivazioni emotive intense che vanno tenute sotto controllo (e abbiamo visto come generalmente tali attivazioni emotive siano innescate da vissuti legati a temi di paura e di percezione di pericolosità del mondo). Quindi il problema in quei casi era soprattutto quello di gestire, ridurre, modulare l’attivazione di questi stati emotivi. Invece nei pazienti che soffrono di fobia sociale, le dinamiche che sottendono l’emergenza psicopatologica sono abbastanza diverse.

Infatti il senso di sé di questi pazienti si costituisce soprattutto ancorandosi ad un contesto di riferimento esterno, rappresentato dall’ Altro significativo.  Questi pazienti cercheranno di sentire una consistenza personale, un riconoscimento di sé, ricavato in base a quanto riescano ad aderire alle aspettative dell’ Altro significativo. Questo Altro significativo nelle proprie storie di sviluppo è rappresentato da figure (genitoriali) d’accudimento ambigue e invadenti, e non iperprotettive e super accudenti come capitava nel caso dei fobici tradizionali. L’invadenza e l’ambiguità di tali figure di accudimento non danno la possibilità al bambino di costituire un proprio fondo emotivo definito e demarcato. Infatti hanno spesso a che fare con figure genitoriali che tendono costantemente a disconfermare e ridefinire quello che il bambino prova, la sua dimensione emotiva.  Questo farà si che il bambino abbia molte difficoltà a riconoscere le proprie emozioni, che saranno vaghe e indistinte, e questo determinerà la tendenza a cercare continuamente nell’altro un riconoscimento di sé. E’ solo attraverso l’altro che si avranno informazioni utili sulla propria esperienza del mondo, nella misura in cui la propria ‘bussola emotiva’ funziona poco e male, è sfrangiata e inconsistente.  Con il raggiungimento dell’età adulta l’Altro significativo (inizialmente rappresentato dalle figure genitoriali) diventa un concetto molto più ampio, che può includere qualsiasi figura di riferimento, dall’insegnante ai compagni di scuola, dai colleghi d’ufficio ai frequentatori del circolo sportivo. Questa dinamica, che consiste nel dover corrispondere alle aspettative degli altri per ricavare un senso di sé, determinerà una costituzione di stati emotivi interni molto più laschi e indefiniti, con crescenti difficoltà nel dare forma al proprio mondo emotivo. Il loro mondo emotivo sarà quindi caratterizzato da una opacità e una inconsistenza di fondo. In questi casi la dimensione emotiva è in qualche modo sacrificata e asservita alla costruzione narrativa del personaggio che l’individuo vuole mostrare agli altri. E questo personaggio sarà costruito e raccontato secondo dei criteri di adesione ad aspettative sociali, familiari, professionali. Queste aspettative altrui vengono quindi considerate prioritarie, molto più importanti di quello che può essere un vissuto emotivo originario, spesso troppo inconsistente per prendere una sua forma.

Questo farà si che per i fobici sociali saranno critiche quelle situazioni in cui si sentiranno oggetto di giudizi o valutazioni altrui, e la paura emergerà in contesti sociali o situazionali che possono creare imbarazzo, in cui il soggetto può sentirsi giudicato o esaminato.  Questo li rende ipersensibili alle valutazioni negative, alle critiche e ai rifiuti. Intendiamoci, tutti siamo sensibili alle critiche e per chiunque un rifiuto non è una situazione piacevole, ma per i fobici sociali un giudizio negativo o un rifiuto sono costitutivi di un senso di sé, quindi possono avere effetti devastanti, tanto da essere estremamente temuti ed evitati per quanto possibile. Questo li porta ad avere un senso di sé spesso sotteso da sentimenti di bassa autostima e inferiorità, difficoltà ad essere assertivi, ansie da prestazione, evitamento di situazioni dalle quali potrebbero ricavare un giudizio negativo o un rifiuto.

Questo tipo di patologia può essere anche molto invalidante in quanto a volte si trova alla base di comportamenti di evitamento sociale, che possono costituire quelle patologie delle false identità o dei comportamenti mitomanici. In questi casi , nonostante, o forse dovremmo dire proprio a causa dell’ evitamento di confronti e di situazioni di esposizione sociale, attraverso il ricorrente ricorso alla menzogna, si può dare forma a narrazioni caratterizzate un personaggio completamente diverso da quelli che sono i fatti ‘reali’, che abbiano un riscontro biografico, e le proprie esperienze di vita. Queste false identità si possono configurare nei ragazzi che negano ai propri familiari le proprie difficoltà scolastiche, fino ad arrivare al momento della laurea, quando sono costretti a smascherare anni di fallimenti universitari. Gli stessi temi li ritroviamo nelle vere e proprie mitomanie, attraverso le quali ci si costruisce identità completamente immaginarie. In questi casi la narrazione di sé può mantenere una coerenza e una identità che si mostrano sempre più slegate dal mondo fattuale: il personaggio che si racconta diventa sempre più prioritario, fino a fagocitare il mondo dell’esperienza di vita del paziente, che finisce con il progressivo identificarsi con la narrazione, una narrazione povera di vita, e come tale destinata inevitabilmente al naufragio.

A questo proposito un caso interessante e drammatico è quello raccontato da Emanuele Carrere in un libro di un po’ di anni fa, “L’avversario”. Il libro racconta la storia di Jean Claude Romand, medico ricercatore presso l’ O.M.S.di Ginevra, con una bella famiglia, una moglie e 2 figli piccoli, una vita agiata, condotta in una cittadina alla falde dello Giura, un massiccio montuoso che divide la Francia del Nord Est dalla Svizzera. In questa cittadina, in cui si conoscono un po’ tutti, un giorno la villa dei Romand va a fuoco, vengono ritrovati i corpi della moglie e dei due figli, di 5 e 7 anni, morti e il corpo di Jean Claude in fin di vita. Si pensa ad un incendio incidentale, poi si scopre che la moglie era stata uccisa nel sonno a colpi di mattarello, e i figli con dei colpi di fucile. Si pensa quindi ad una rapina finita male. Ma qualcosa non torna, dopo alcune ore arriva la notizia che anche i genitori di Jean Claude, che abitavano a 300km di distanza, sono stati trovati morti, uccisi anche loro a colpi di fucile. La polizia cerca di ricostruire la vicenda e si scopre che all’OMS di Ginevra non lavora nessun dott. Romand, né in alcuna altra sede, quel nome è assolutamente sconosciuto all’OMS.

Nell’arco di qualche tempo viene fuori la vera, drammatica storia di Romand: Jean Claude non aveva mai lavorato all’ OMS, non si era mai laureato in medicina, si era fermato al secondo anno di università, quando non ce l’aveva fatta a presentarsi agli esami per timore di non superarli, e da allora aveva finto per 11 anni di continuare a seguire gli studi e sostenere esami, iscrivendosi per 12 volte allo stesso secondo anno di medicina. Quindi aveva finto di laurearsi, aveva finto di aver vinto un concorso come ricercatore all’ OMS, e tutte le mattine faceva finta di andare a lavorare a Ginevra. Uno dei tanti frontalieri di quella zona della Francia, a pochi minuti di macchina dalla Svizzera. Mentre invece passava le sue giornate vagabondando per i boschi e i parchi antistanti la sede dell’ OMS. Le sue trasferte di lavoro erano documentate da depliant di viaggio in base ai quali ricostruiva le caratteristiche delle località che ospitavano i congressi scientifici ai quali diceva di partecipare. Per Natale spediva biglietti di auguri a nome dei suoi superiori indirizzati alla moglie e ai figli.  Né la famiglia (la moglie, i genitori), né il suo migliore amico, compagno di studi universitari e vicino di casa, con il quale avevano condiviso il corso di medicina a Lione e che ora faceva il medico condotto nella cittadina in cui abitavano, nessuno aveva mai nutrito qualche sospetto. Per sostenere economicamente il loro tenore di vita (che era comunque elevato) aveva utilizzato inizialmente i risparmi dei genitori, con la motivazione di poterli investire a tassi molto convenienti nelle sedi finanziarie dell’ OMS. In seguito con le stesse motivazioni aveva utilizzato i risparmi di parenti e amici, affidatigli per investimenti. Ad un certo punto le sue risorse finanziarie cominciano ad esaurirsi, si innamora di una donna dalla quale si fa consegnare 900.000 franchi per degli ‘investimenti molto vantaggiosi’, ma la relazione non funziona, lei ad un certo punto chiede indietro i suoi soldi. A quel punto Jean Claude si sente scoperto, sente di essere arrivato alla fine di un racconto che ormai non può più sostenere, decide di mettere fine all’intera storia annullando la narrazione che lui stesso aveva creato: uccide i suoi familiari più stretti, dà fuoco alla sua casa, prende una forte dose di medicinali per lasciarsi morire durante l’incendio. Ma la dose ingerita non è letale, verrà salvato dall’ intevento dei vigili del fuoco, dovrà affrontare un processo penale che lo condannerà all’ergastolo senza alcuna attenuante. La sua narrazione, che aveva sempre cercato di corrispondere alle aspettative altrui, quelle dei genitori prima (era un figlio unico e i genitori avevano sempre riposto su di lui grandi aspettative) e quelle dei vari contesti sociali nei quali si era ritrovato a doversi confrontare, con l’idea che fosse fondamentale mantenere in piedi il personaggio che gli altri (genitori, amici, fidanzate, moglie…) si aspettavano da lui, questa narrazione si era conclusa con l’ immagine, se volete emblematica, di un incendio che riduceva in cenere la storia di una vita.

Bibliografia

 

Arciero GP.  Studi e dialoghi sull’identità personale, Bollati Boringhieri, 2002

Arciero GP.  Sé, identità e stili di personalità, Bollati Boringhieri, 2012

Carrere E.  L’avversario, Adelphi, 2000

Guidano V. Il sé nel suo divenire, Bollati Boringhieri, 1992

Guidano V. La psicoterapia tra arte e scienza,  Franco Angeli, 2008

 

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