Psichiatra e Psicoterapeuta

Antidepressivi in gravidanza: tutto quello che bisognerebbe sapere

antidepressivi e gravidanza
antidepressivi e gravidanza

L’utilizzo degli antidepressivi in gravidanza rappresenta un problema clinico abbastanza complesso. Nel corso della loro vita le donne sono esposte al rischio di soffrire di un episodio depressivo due volte più degli uomini e tale rischio è maggiore durante il loro periodo riproduttivo. Circa il 18% delle donne soffre di depressione durante il periodo della gravidanza, e circa il 20% delle neo-mamme svilupperà un episodio depressivo maggiore nei primi tre mesi dopo il parto, la maggior parte nell’arco delle prime settimane (Gavin NI et al 2005). L’utilizzo di antidepressivi (AD) in gravidanza ha mostrato un incremento dal 2% del 1996 al 7,5% nel 2011 (e questi dati non tengono conto delle assunzioni di medicinali non dichiarate) (Mitchell AA et al 2011). Le informazioni che provengono da amici, parenti, servizi di salute pubblica, media hanno un forte effetto sulla decisione della donna di proseguire o meno l’assunzione degli antidepressivi durante la gravidanza (Mulder E at al 2012).Spesso succede, anche in seguito a campagne mediatiche allarmistiche, che pazienti depresse interrompano l’assunzione degli antidepressivi durante la gravidanza, e questa non è una pratica evidence-based raccomandata.

In Nord America si sta ponendo sempre più spesso un problema di knowledge translation (KT) nell’ambito della gestione della prevenzione sanitaria, cioè di come le evidenze della ricerca scientifica vengano trasmesse da operatori sanitari e mezzi d’informazione alla popolazione comune. Questo è importante in quanto una buona comunicazione delle conoscenze della ricerca scientifica può aiutare in maniera ottimale le persone a prendere decisioni importanti su trattamenti sanitari, percorsi terapeutici, stili di vita e abitudini alimentari. L’utilizzo degli antidepressivi durante la gravidanza è uno dei temi più sensibili al problema della KT, in quanto le donne sono spesso raggiunte da messaggi allarmistici e fuorvianti circa la possibilità di effetti teratogeni (che inducano quindi possibili malformazioni fetali) o altre complicazioni gravi in seguito all’assunzione di psicofarmaci (Shahin I e Einarson A, 2011). Bisogna infatti considerare che le donne in gravidanza che interrompono il trattamento farmacologico antidepressivo hanno un rischio fino a 5 volte maggiore di sviluppare un nuovo episodio depressivo rispetto alle puerpere che proseguono il trattamento antidepressivo (Cohen L et al, 2006). Inoltre sono da prendere in considerazione i rischi di una depressione non trattata sia per la madre che per il feto/neonato. Le mamme tendono a mostrare significativo aumento ponderale (Bodnar LM, 2009), abuso di sostanze (alcool, fumo, analgesici oppiacei, antiemetici, ipnotici) (Newport DJ et al, 2012), parto pretermine (Cripe SM, 2011), complicanze ostetriche (taglio cesareo, uso di forcipe, ecc..), ricorso alla terapia intensiva neonatale (Chung TK et al, 2001). Inoltre la depressione postpartum può incidere negativamente sullo sviluppo del bambino ed è stata associata a difficoltà temperamentali e attaccamento insicuro nel bambino (Forman DR et al, 2007), problemi comportamentali, ritardi di sviluppo e bassi punteggi di QI (Daeve T et al, 2008), difficoltà nelle interazioni sociali (Pilowsky DJ et al, 2006). Ancora, la depressione perinatale può anche essere fatale per la madre, infatti il suicidio spiega il 20% dei decessi postpartum delle donne depresse (Lindahl V et al, 2005). Per quanto riguarda invece gli effetti sul neonato, sembra che i neonati di madri depresse mostrino un profilo biochimico/fisiologico che mima quello delle loro madri, evidenziando livelli elevati di cortisolo, bassi livelli di dopamina e serotonina, basso tono vagale, maggiore attivazione nelle regioni frontali destre all’EEG.

rischi depressione non trattata in gravidanza

Ma quali sono, seconda una medicina evidence-based, i rischi concreti nell’assunzione di antidepressivi durante il periodo della gravidanza? Intanto va sottolineato che la maggior parte degli studi sono studi osservazionali (studi retrospettivi di coorte, caso-controllo, case reports o studi da databases sanitari/amministrativi), che si basano sulla raccolta di informazioni e dati senza possibilità di intervenire sulla randomizzazione (assegnazione casuale tra casi e controlli) di essi. Infatti studi controllati randomizzati (Randomized Controlled Trials) sulla sicurezza di farmaci in gravidanza sarebbero impraticabili per evidenti ragioni etiche. Il dato della mancata randomizzazione dei campioni comporta una serie di bias (asimmetrie, sbilanciamenti, inadeguatezze) nella raccolta dei risultati. Infatti se si confronta una popolazione di donne depresse che assumono farmaci antidepressivi con una popolazione di donne depresse che non li assumono (drug-free), è molto probabile che la prima popolazione avrà una maggiore gravità della patologia e quindi questo fattore (gravità del quadro depressivo, che può essere a sua volta legato ad altri fattori come abuso di sostanze, scarse cure dietetiche, ecc..) può incidere sui risultati in maniera indipendente dai farmaci (bias di selezione). Inoltre spesso in questi studi i dati vengono raccolti basandosi sull’anamnesi retrospettiva delle pazienti, che a volte possono essere inaffidabili in quanto possono aver assunto farmaci non dichiarati nelle interviste (recall bias). O ancora nelle analisi su vasta scala di databases sanitari/amministrativi quello che viene registrato è la redazione della prescrizione, ma non è accertato se le pazienti abbiano realmente assunto il farmaco (Einarson A, 2013). Questo vuol dire che i dati raccolti possono essere di difficile interpretazione e per avere risultati più affidabili sarà necessario affidarsi a campioni molto numerosi o mettere insieme i dati di più studi (meta-analisi).

Gli effetti avversi da considerare nell’uso di antidepressivi in gravidanza si possono sostanzialmente raggruppare in quattro categorie:

  • Aborto spontaneo (interruzione spontanea della gravidanza prima della 20esima settimana di gestazione o prima che il feto abbia raggiunto i 500gr.).

L’aborto spontaneo è un evento avverso abbastanza comune in gravidanza con una frequenza che arriva fino al 15% di tutte le puerpere (anche se è difficile stimare la reale incidenza, in quanto molti di quelli che avvengono nelle prime settimane di gestazione non vengono riconosciuti). Il rischio di aborto spontaneo tra le donne che assumono antidepressivi in alcuni lavori sembra essere nullo, in altri sembra essere molto modestamente aumentato: ad es. in uno studio caso-controllo con 5.124 casi (donne in gravidanza che avevano avuto un aborto spontaneo prima della 20esima settimana di gestazione) vs. 51.240 controlli (donne in gravidanza che non avevano avuto aborti spontanei prima della 20esima settimana di gestazione), si evidenziava come 284 donne con aborto spontaneo (5% del campione) aveva ricevuto almeno una prescrizione di antidepressivo durante la gestazione, contro i 1401 (2,7%) dei controlli. Tale studio mostrava come l’esposizione ad antidepressivi risultava significativa per la frequenza di aborti spontanei (anche se debolmente, RR 1,68 IC 95% 1,38-2,06), ma anche che una semplice storia di depressione lo era (OR 1,19; IC 95% 1,03-1,38). Inoltre si evidenziava come gli SSRI (antidepressivi che agiscono in maniera selettiva sul sistema della serotonina) erano più a rischio dei triciclici, l’associazione SSRI e SNRI (antidepressivi che agiscono sul sistema della serotonina e noradrenalina) rappresentava un maggior fattore di rischio, e tra i vari AD la paroxetina e la venlafaxina erano le molecole più rischiose (anche se parliamo sempre di rischi statistici, in realtà i rischi clinici sono molto contenuti) (Nakhai-Pour et al, 2010). Questi dati comunque provenivano da databases amministrativi del Quebec e quindi mancavano di informazioni su abuso di sostanze (alcolici, altro..), tabagismo, obesità e altri fattori di rischio. Più recenti meta-analisi sembrano confermare questi risultati, con una molto modesta accentuazione del rischio per le donne che assumevano antidepressivi (OR=1,87; IC 95% 1,5-2,33, Nikfar S, Rahimi R et al , 2012) e (OR=1,45; IC 95% 1,22-1,72, Ross L et al, 2013). Gli AD triciclici sembrano avere un rischio ancora minore o nessun rischio (Ram D. e Gandotra S, 2015)

  • Rischi teratogeni. Questi riguardano la possibilità di insorgenza di malformazioni congenite, intese come anomalie strutturali o funzionali del feto presenti alla nascita.

 depressione in gravidanzaLe malformazioni congenite hanno un incidenza del 2/3 % nella popolazione generale, la maggior parte rare, quelle più frequenti sono le malformazioni cardiache (che hanno un incidenza di circa l’1%) (Cunningham FG at al, 2010). Per quanto riguarda gli antidepressivi triciclici numerosi studi di piccole dimensioni (Nulman I et al, 1997; Simon GE et al, 2002) e un ampio studio caso-controllo (Ramos E et al, 2008) non hanno dimostrato alcuna associazione significativa con malformazioni congenite. Un altro ampio studio epidemiologico, basato sui dati di registri sanitari in USA, prendendo in considerazione 2201 donne in gravidanza a cui erano stati prescritti degli antidepressivi (sia triciclici che SSRI), non ha evidenziato nessuna correlazione tra farmaci e malformazioni congenite (Davis RL et al, 2007). Invece in un altro studio, prospettico di coorte, realizzato con i dati dei registri delle nascite in Svezia, dal 1995 al 2007, prendendo in considerazione 14.821 donne con un totale di 15.017 neonati, veniva evidenziata un’associazione significativa, anche se molto contenuta, tra AD triciclici e malformazioni congenite, sia generali (OR=1,36 IC% 1,07-1,72), che cardiovascolari (OR=1,63; IC% 1,12-2,36) (Reis M e Kallen B, 2010).  Per quanto riguarda invece gli SSRI, fino al 2005 si ritenevano assolutamente sicuri e non c’erano dati su un maggior rischio di effetti teratogeni in seguito alla loro assunzione durante la gravidanza. Nel 2005 la GlaxoSmithKline, azienda farmaceutica che produceva la paroxetina (uno degli SSRI più diffusi nella pratica clinica),  presentò un proprio studio, di piccole dimensioni, che suggeriva una maggior incidenza di malformazioni cardiache per i neonati esposti al loro farmaco in utero. La Glaxo presentò questi dati alla Food and Drug Administration (FDA) che fece inserire nella scheda tecnica della paroxetina un warning (prestare attenzione) relativo ad un più alto rischio di malfarmozioni cardiache congenite nelle puerpere che assumevano il farmaco. In realtà i dati della Glaxo erano non pubblicati e relativi ad un campione poco numeroso, e questo rendeva difficile un corretta interpretazione. Comunque i dati attestavano una incidenza di malformazioni cardiovascolari del 2% , nelle mamme che assumevano paroxetina, contro un’incidenza attesa dell’1% nella popolazione generale (Williams M e Wooltoton E, 2005). Dal 2005 in poi sono stati fatti numerosi studi sul potenziale teratogeno dei farmaci SSRI, che hanno però prodotto risultati non definitivi e spesso contraddittori. Due ampi studi caso-controllo fatti nel 2007 (parliamo di più di 20.000 bambini vs circa 50.000 controlli) che prendevano in considerazione gli SSRI come classe, non sono riusciti a dimostrare alcuna associazione significativa tra esposizione a SSRI in gravidanza e malformazioni congenite cardiovascolari (Louik C et al, 2007; Alwan S et al, 2007). Nello stesso anno altri due studi mettevano in evidenza un aumento dell’incidenza di malformazioni congenite con l’uso di paroxetina nel primo trimestre di gravidanza (Cole JA et al, 2007; Kallen BA et al, 2007). In seguito alcuni studi su database della popolazione generale hanno messo in evidenza invece un piccolo incremento del rischio di malformazioni cardiovascolari con l’uso di SSRI in maniera aspecifica (Colvin L et al, 2011; Kornum JB et al, 2010; Malm H et al, 2011). Si è quindi cercato di capire se il rischio degli SSRI esistesse come classe o se riguardasse soltanto alcune specifiche molecole. In una ampia meta-analisi pubblicata nel 2013, che si proponeva di valutare il rischio di malformazioni congenite e difetti cardiovascolari in neonati dopo esposizione ad antidepressivi in utero, Grigoriadis e collaboratori hanno mostrato che non vi erano rischi significativi per le malformazioni congenite in generale, questo quando l’analisi statistica prendeva in considerazione soltanto gli studi che presentavano determinati requisiti di qualità. Si manteneva invece un piccolo ma significativo incremento del rischio per malformazioni cardiache, e questo riguardava soprattutto la paroxetina (Grigoriadis S et al, 2013). In un lavoro pubblicato nel 2015 sono state prese in considerazioni le madri di 17.952 bambini nati con malformazioni congenite e 9.852 madri di bambini nati senza malformazioni congenite, attraverso certificati di nascita e ospedalieri, in un arco di tempo che va dal 1997 al 2009, in dieci diversi centri in USA. Da questo lavoro molto corposo emergeva che la sertralina era l’antidepressivo SSRI più utilizzato in gravidanza, che nell’insieme gli SSRI come classe potevano essere considerati molto sicuri rispetto al rischio teratogeno, e che soltanto una debole significatività per un aumento del rischio di malformazioni cardiache veniva evidenziata per la fluoxetina (ostruzione di flusso nel ventricolo destro) e per la paroxetina (difetto del setto interatriale, ostruzione di flusso ventricolo destro), assunte nel primo trimestre di gravidanza, confermando altri report della letteratura (Malm H et al, 2011; Alwan S et al, 2007). Inoltre veniva messo in evidenza un maggior rischio di anencefalia con l’uso di paroxetina. Bisogna comunque sottolineare che i rischi evidenziati, seppure statisticamente significativi, sono comunque molto bassi, ad es. quello tra paroxetina e anencefalia, che aveva il coefficiente più alto (OR=3,2; IC95% 1,6-6,2, che vuol dire un rischio relativo 3 volte maggiore rispetto ai non esposti) tradotto in pratica voleva dire passare da un rischio di 2 bambini con anencefalia ogni 10.000 bambini nella popolazione normale a 7 bambini ogni 10.000 tra quelli esposti alla paroxetina; e per quanto riguarda il secondo punteggio più alto tra i fattori di rischio, quello tra paroxetina e ostruzione di flusso del ventricolo destro (OR=2,4; IC95% 1,4-3,6), questo voleva dire aspettarsi il difetto cardiaco per 24 neonati ogni 10.000, invece che per 10 neonati ogni 10.000 come nella popolazione generale (Reefhuis J et al, 2015)!  L’uso degli Inibitori delle Monoammino Ossidasi (IMAO) (attualmente comunque sempre meno utilizzati nella pratica clinica, in base ad uno studio pubblicato nel 1977 che aveva messo in evidenza un rischio relativo (RR) di 3,4 nell’incidenza di malformazioni cardiache, Heinonen OP et al, 1977) è generalmente sconsigliato (Ram D et Gandotra S, 2015). Inoltre bisogna aggiungere che gli IMAO andrebbero comunque evitati in gravidanza per il rischio di crisi ipertensive. Per quanto riguarda altri antidepressivi, la venlafaxina, la mirtazapina, il trazodone sono ritenuti abbastanza sicuri rispetto al rischio teratogeno. Un leggero incremento del rischio per le malformazioni cardiache si è trovato in alcuni studi con il bupropione, anche se il rischio assoluto sembra essere di 2,1 neonati ogni mille, contro quello di 0,8 ogni mille della popolazione generale (Byatt N et al, 2013).

  • Rischi di tossicità neonatale. Questi si riferiscono ad una serie di sindromi osservate in acuto alla nascita, caratterizzate da disfunzioni neurofisiologiche e comportamentali. Le più frequenti sono:

  1. la sindrome da ipertensione polmonare persistente nel neonato (PPHN), che è caratterizzata da insufficienza respiratoria ipossiemica con shunt destro-sinistro causata da una persistente ipertensione polmonare nel neonato rispetto al distretto sistemico. Tale evento ha una frequenza di circa 2/6 casi di neonati ogni mille (Lakshminrusimha S et al, 1999), ma può avere esito fatale nel 10-20% dei casi (Greenhough A et al, 2005). In uno studio del 2006, che replicava dati simili ottenuti nel 1996, Chambers e collaboratori riportarono un rischio di sviluppare PPHN, con l’uso di SSRI dopo la 20esima settimana di gestazione, di più di 6 volte maggiore che nella popolazione generale (adjusted OR=6,1 IC% 2,2-16,8, Chambers CD et al, 2006). Nonostante il numero di casi preso in esame fosse limitato (si trattava di 16 casi contro 6 controlli !), la FDA intervenne, in base ai risultati di questo studio, e pubblicò un Public Health Advisory su l’incremento del rischio di PPHN associato all’uso di SSRI dopo la 20esima settimana di gravidanza. In seguito le evidenze di Chambers non vennero replicate e gli studi che seguirono trovarono o nessuna associazione (Andrade SE et al, 2009; Wichman CL et al, 2009) o piccole associazioni (Kieler H et al, 2012) tra PPHN e uso di antidepressivi, tanto da portare la FDA, nel dicembre 2011, a rilasciare un Drug Safety Communication che stabiliva che non esistevano sufficienti evidenze per affermare che l’esposizione agli antidepressivi durante la gravidanza potesse causare PPHN. In base alla letteratura finora prodotta si può affermare che esiste una molto modesta associazione o nessuna associazione tra uso di antidepressivi in gravidanza e insorgenza di PPHN (Byatt N et al, 2013).

    FDA e sicurezza dei farmaci in gravidanza

  2. La sindrome da cattivo adattamento neonatale (Poor Neonatal Adaption Sindrome, PNAS) è caratterizzata da: ittero, problemi respiratori, bassi livelli di glicemia, disturbi del sonno e iperattività motoria (Levinson-Castiel L et al, 2006), insorge nel 10-30% dei casi di neonati esposti in utero ad antidepressivi (in particolare SSRI), e non è chiaro se è su base tossica o da astinenza. Bisogna comunque sottolineare che i sintomi si risolvono nell’arco di una settimana senza apparenti effetti avversi nel lungo periodo (Lorenzo L et Einarson A, 2014)

  3. Allungamento dell’intervallo QTc. L’allungamento dell’intervallo QTc all’elettrocardiogramma (ECG) è considerato un fattore di rischio per l’insorgenza di aritmie maligne e morte improvvisa. Vi è soltanto uno studio che riporta un allungamento del QTc in 52 neonati esposti ad SSRI in utero confrontati con 52 neonati sani come gruppo di controllo. La media del QTc era significativamente più lunga nel gruppo di neonati esposti ad SSRI se confrontata con i neonati non esposti (409 +/- 42 vs 392 +/-29 millisecondi). 5 tra i neonati esposti ad SSRI mostravano un pronunciato allungamento del QTc (≥ 460ms), cosa che non si rilevava in nessuno dei neonati del gruppo di controllo (Dubnov-Raz G et al, 2008). Comunque queste anomalie dell’ECG si normalizzarono nell’arco di alcuni giorni.

  • Rischi neuro-evolutivi di lungo periodo. Negli ultimi anni sono stati riportati in letteratura dei rischi di sviluppare disturbi dello spettro autistico (autism spectrum disorders, ASD) in bambini di madri che avevano fatto uso di antidepressivi durante la gravidanza.

La prevalenza dei disturbi dello spettro autistico (ASDs) negli Stati Uniti ha avuto un drammatico incremento negli ultimi 20 anni, passando da 5 ogni 10.000 bambini degli anni ‘80 a 1 ogni 88 nel 2008 (Rai D et al, 2013). Incrementi simili sono stati riportati nei paesi occidentali. Si ritiene che un miglior riconoscimento della patologia e un maggior affinamento dei criteri diagnostici possa spiegare questa crescente prevalenza, ma non bisogna escludere un reale incremento dell’incidenza. Negli ultimi 5 anni alcuni studi hanno messo in evidenza un possibile aumento del rischio di bambini con ASD dopo l’esposizione in utero ad antidepressivi, in particolare SSRI. Esistono tre studi che depongono per un incremento di tale rischio, in particolare quando l’assunzione di antidepressivi avveniva nel primo trimestre di gravidanza e con in bambini maschi piuttosto che con le femmine (Harrington RA et al 2014), anche se l’uso di antidepressivi spiegava lo 0,6% dei casi di autismo in più rispetto ai controlli. Questo vuol dire che se nella popolazione generale il rischio di avere un bambino autistico è attualmente di circa l’1% , secondo questi studi le donne che assumerebbero SSRI porterebbero tale rischio, nelle peggiore delle ipotesi, intorno al 2%. C’è da aggiungere che, in almeno due di questi studi, lo sviluppo di tratti autistici nei bambini era anche correlato con la sintomatologia depressiva della madre, a prescindere dall’assunzione o meno di farmaci antidepressivi ((Rai D et al 2013, El Marroun H et al 2014). Questo vorrebbe dire che non vi è necessariamente un’associazione causale tra esposizione ad SSRI in utero e sviluppo di tratti autistici, ma la prescrizione di SSRI in gravidanza rappresenterebbe un marker di gravità della psicopatologia materna, e sarebbe questa severità della storia clinica della madre a determinare l’incremento del rischio. Esiste inoltre uno studio di coorte, pubblicato di recente, dove su 668.468 bambini nati in Danimarca tra il 1996 e il 2006 non veniva rilevata alcuna associazione tra esposizione agli antidepressivi in utero e sviluppo di disturbi dello spettro autistico nella discendenza (Sorensen MJ et al, 2013). E’ vero che esistono modelli animali di autismo che, utilizzando farmaci che incrementano l’attività della serotonina, supportano l’ipotesi che durante le fasi precoci di gestazione, alti livelli di serotonina cerebrale circolante possano determinare una riduzione di terminazioni assoniche serotoninergiche (Whitaker-Azmitia PM, 2005). D’altra parte però bisogna considerare come gli SSRI e altri farmaci antidepressivi possano svolgere un ruolo regolativo sulla trasmissione serotoninergica di madri depresse, e quindi avere una funzione protettiva anche nei confronti del feto. A questo proposito si possono citare gli studi sperimentali su animali da laboratorio che dimostrano come il trattamento con fluoxetina della madre previene nella prole comportamenti depressivi e impoverimento della neurogenesi ippocampale legati a situazioni di stress prenatale (Rayen L et al, 2011).

rischi delle depressioni in gravidanza
depressione e rischi in gravidanza

In conclusione si può affermare che la decisione sul trattamento farmacologico di una donna in gravidanza è sicuramente difficile, ed è necessario sempre valutare il rapporto rischi/benefici anche e soprattutto in relazione alla storia della paziente e alle sue condizioni cliniche attuali. Naturalmente innanzitutto deve essere presa in considerazione la possibilità di aiutare la donna con degli interventi psicoterapici di supporto o più strutturati, e questo può funzionare nelle forme meno severe e/o maggiormente legate ad aspetti relazionali contingenti e temi significativi più immediatamente collegati all’evento ‘gravidanza’. D’altra parte bisogna anche avere chiara la consapevolezza che un episodio depressivo importante non trattato, può avere conseguenze negative, a volte anche drammatiche, sulla mamma, il bambino e tutta la famiglia. E’ importante inoltre considerare che la comunicazione del rischio, attraverso quella che gli americani chiamano knowledge translation (KT), è una parte molto importante e delicata della gestione dei casi clinici, spesso assolutamente sottovalutata. Questo vuol dire che se il rischio di sviluppare una cardiopatia congenita per un bambino la cui madre è stata trattata con paroxetina durante la gravidanza è di 2,4 casi ogni mille, contro quello di 1 caso ogni mille della popolazione generale, bisogna anche considerare i rischi di una depressione non trattata, con le sue possibili conseguenze sulla madre e sul bambino, di cui il suicidio/infanticidio rimane quella più drammatica (Cantwell R et al, 2011). Bisogna sottolineare che una errata percezione del rischio fetale correlato all’utilizzo di farmaci psichiatrici può portare le gestanti ad evitare trattamenti terapeutici importanti. Ad esempio sembra che il più forte fattore predittivo di una depressione postpartum sia una depressione nell’ultima parte della gravidanza, che è spesso causata dalla sospensione di terapie antidepressive in corso (Einarson A et al, 2001)  La questione chiave, in definitiva, è l’avvedutezza della prescrizione farmacologica, evitando le inappropriate medicalizzazioni di tristezza e stati di stress, legati comprensibilmente alle difficoltà psicologiche che una puerpera può attraversare.

Cerchiamo quindi di riassumere i principali punti che si possono evidenziare dalla revisione della letteratura esposta sopra:

  1. Esistono risultati abbastanza discordanti tra vari studi e questo potrebbe dipendere da una serie di fattori che possono inteferire sui risultati finali, e che spesso non sono considerati negli studi, come il fumo di sigaretta, il consumo di altri farmaci o di alcolici, condizioni di obesità, scarse cure prenatali, tutti fattori frequentemente associati alle donne che utilizzano antidepressivi, e che possono spiegare quelle maggiori incidenze di rischio viste in alcuni studi osservazionali.

  2. I dati di una certa consistenza includono: una modesto aumento del rischio di aborti spontanei con l’uso di antidepressivi, una possibile associazione tra paroxetina e malformazioni cardiache (anche se il rischio rimane modesto), un probabile  effetto degli antidepressivi su la sindrome da cattivo adattamento neonatale (PNAS), un possibile incremento del rischio, anche se molto contenuto, nei bambini esposti in utero a SSRI, di sviluppare disturbi dello spettro autistico (parliamo di un incremento che spiega meno dell’1% dei possibili casi di autismo).

  3. I clinici dovrebbero informare i pazienti sui possibili rischi del trattamento, ma le informazioni non devono essere tali da allarmare o spaventare la donna, considirate anche le condizioni di sensibilità psicologica e la delicatezza dell’argomento.

  4. Vanno anche tenuti in considerazione i rischi di un mancato trattamento per la madre ma anche per il bambino, sia nella fase della gravidanza che nel postpartum.

  5. Naturalmente bisognerebbe considerare gli approcci non farmacologici, e soprattutto quelli psicoterapici, come la ‘prima linea’ degli interventi, soprattutto per quelle forme depressive di lieve o media entità. Nelle forme più severe bisogna considerare con molto scrupolo la necessità di una terapia psicofarmacologica e informare correttamente le pazienti dei rischi contenuti in una scelta o nell’altra.

Per concludere può essere utile tenere in considerazione la tabella della Food and Drug Adminiztration (FDA) che distingue per categorie i farmaci da utilizzare in gravidanza in base ai rischi sul feto evidenziati nella letteratura clinica e sperimantale. La FDA distingue i farmaci in 5 classi in base alla loro pericolosità teratogena:

  • Classe A: Studi umani adeguati e ben controllati (adeguate and well-controlled studies) in donne in gravidanza non hanno mostrato alcun incremento del rischio di anomalie per il feto
  • Classe B: Studi su animali non hanno mostrato effetti avversi per il feto, e comunque non sono presenti in letteratura studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza. Oppure Studi su animali hanno mostrato eventi avversi, ma studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza non hanno dimostrato alcun incremento del rischio per il feto.
  • Classe C: Studi su animali hanno mostrato eventi avversi sul feto ma non ci sono studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza. Oppure non vi sono studi su animali convincenti e non vi sono studi adeguati e ben controllati nelle donne in gravidanza.
  • Classe D: Studi, adeguati e ben controllati o osservazionali, nelle donne in gravidanza hanno mostrato un certo grado di rischio per il feto. Comunque i benefici della terapia possono sovrappesare i rischi potenziali.
  • Classe X: Studi, adeguati e ben controllati o osservazionali, su animali e in donne in gravidanza hanno dimostrato evidenze di significativo rischio fetale, e tale rischio nell’uso del farmaco è chiaramente prevalente rispetto a qualsiasi beneficio per la madre. Tali farmaci sono controindicati in donne in gravidanza e in età fertile.

antidepressivi e classificazione FDA

Tale classificazione è stata accusata di essere eccessivamente semplificatoria e non sempre chiara nelle indicazioni, rimane comunque uno degli strumenti di riferimento più utilizzati nella scelta dei farmaci in gravidanza. In base a tale tabella la maggior parte degli antidepressivi è collocata in classe C, e solo alcuni, come la paroxetina e la nortriptilina, sono in classe D. La tabella 1 da le indicazioni delle varie molecole e delle relative classi.

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