Psichiatra e Psicoterapeuta

Psichiatria, Psicologia e Psicoterapia

Storie di amiche nemiche.

 

Che differenza c’è tra lo psichiatra, lo psicologo e lo psicoterapeuta? Quante volte avremo sentito fare questa domanda…? Con le riflessioni di oggi cercheremo di descrivere le loro diverse specificità e le relative differenze. In particolare ci soffermeremo sulla psichiatria e la psicoterapia, che rappresentano le dimensioni più cliniche delle tre (considerando anche che la psicoterapia può considerarsi l’aspetto più conosciuto della psicologia). La vulgata tende a ritenere che psichiatria e psicologia siano mondi distanti tra loro, percorsi alternativi, discorsi che fanno fatica ad incontrarsi, tuttalpiù possono dialogare a distanza.

Diciamo subito che invece sono due discipline con ampi spazi di sovrapposizione, e questi sono rappresentati dalla categoria dei disturbi mentali, quindi da tutto ciò che riguarda il mondo della psicopatologia. Detta così sembra una distinzione semplice, invece la faccenda si rivelerà un po’ più complessa del previsto. I problemi iniziano con la definizione di cos’è un ‘disturbo mentale’. Su una cosa si è tutti abbastanza d’accordo, e cioè che esiste una dimensione clinica rappresentata dai disturbi mentali, e ogni disturbo mentale è rappresentato da una sintomatologia che lo descrive e lo definisce. Ad esempio l’umore depresso, le crisi di pianto, la riduzione degli interessi, i disturbi del sonno sono alcuni dei sintomi che caratterizzano i quadri depressivi, mentre perdere il rapporto con la realtà, credere cose che non esistono, sentire ‘voci’ che gli altri non sentono, sono alcuni dei sintomi presenti in forme cliniche più gravi che rientrano nei quadri psicotici (come la schizofrenia, la paranoia o il disturbo bipolare).

Ma cos’è un disturbo mentale?

Il problema però è che essendo le manifestazioni psicopatologiche essenzialmente soggettive (non è come avere la febbre o un’ischemia cardiaca) è più complicato trovare un accordo su cos’è un disturbo mentale, su come sia possibile discriminare tra livelli di sofferenza ‘normali’ e quelli che invece hanno una rilevanza psicopatologica (e che richiedono quindi l’intervento dello psichiatra).

Secondo il DSM, arrivato ormai alla sua 5a edizione, che rappresenta il manuale di classificazione delle malattie mentali più accreditato, una sorta di Bibbia per ogni psichiatra che si rispetti, un ‘disturbo mentale’ è definito da tre dimensioni fondamentali: le sue manifestazioni cliniche, la sofferenza individuale e il livello di disfunzionamento socio-lavorativo. Ma nonostante gli sforzi fatti dalla psichiatria in questi decenni, e l’autorevolezza del DSM, bisogna sottolineare come il modello diagnostico della psicopatologia, che è un modello categoriale (cioè incasella la sofferenza individuale in categorie diagnostiche), sia un modello debole.

Cercherò di chiarire meglio questo aspetto. Negli anni ‘70 uno psicologo, David Rosenhan, proprio per sottolineare questo concetto e la fragilità dei costrutti clinico-diagnostici della psichiatria, ideò una sorta di esperimento naturalistico, passato poi alla storia come ‘esperimento di Rosenhan, o dei falsi pazienti’. Lui era professore alla Stanford University, e nel 1972 decise di sfidare il mondo della psichiatria: mandò 8 volontari sani (che provenivano da formazioni eterogenee: tre psicologi, una casalinga, un pittore, uno studente, uno psichiatra e lui stesso) presso gli ambulatori di accoglienza strutture psichiatriche del Nord America. Questi volontari avevano il compito di presentarsi lamentando di sentire delle voci ( “vuoto” (empty), “cavo” (hollow), “tonfo” (thud)). Al di là di queste ‘voci’ non riferivano altri disturbi psicopatologici e, a parte di dare un nome e una professione di fantasia, per il resto avrebbero dovuto rispondere in maniera sincera e veritiera alle domande poste dal personale sanitario. Ebbene tutti i pazienti vennero ricoverati, nonostante dopo pochi giorni riferissero la remissione del sintomo. Furono trattenuti a ricovero per una durata media di 19 giorni (dai 7 ai 52 giorni) e dimessi con la diagnosi di “schizofrenia in remissione” (7), soltanto uno con quella di “disturbo bipolare”. L’articolo venne pubblicato su Science, una delle più prestigiose riviste scientifiche, nel gennaio del ‘73 con il titolo “On being sane in insane places” (‘sull’essere sani in luoghi per malati di mente’), e suscitò abbastanza scalpore nel mondo accademico.

Sollevare domande riguardanti la normalità e l’anormalità non vuol dire mettere in discussione il fatto che alcuni comportamenti siano devianti o strani. Aggredire qualcuno senza motivo è senz’altro un comportamento deviante. Così come lo sono i deliri e le allucinazioni.

Né sollevare tali questioni nega l’esistenza dell’angoscia che è spesso associata alla ‘malattia mentale’. L’ansia e la depressione esistono. La sofferenza psicologica esiste. Ma normalità e anormalità, sanità mentale e follia, e le diagnosi che ne derivano possono essere meno “sostanziali” (substantive) di quanto molti credano che siano… le diagnosi psichiatriche a volte possono essere nella mente degli osservatori e non sono descrizioni corrette delle caratteristiche delle persone osservate.”

Così scriveva David Rosenhan nella presentazione del suo articolo, per mettere meglio a fuoco il problema che si era posto con il suo esperimento dei ‘falsi pazienti’. Tutto questo stava a sottolineare come il modello diagnostico della psichiatria fosse un modello debole, nato cercando di emulare quello che aveva fatto la clinica medica tra il 18o e il 19o secolo. In quei due secoli infatti la medicina si era andata sempre più a costituire una dimensione scientifica attraverso le nuove scoperte che venivano dall’anatomia patologica, dall’istologia, dallo studio delle lesioni specifiche nei vari tessuti (che caratterizzavano ciascuna patologia), dalla scoperta dei vari agenti patogeni e quindi della eziologia delle malattie, cioè le relative cause specifiche. Quindi forte di un grande bagaglio di nuove conoscenze che avevano rivoluzionato la prospettiva della medicina medievale, la medicina scientifica e moderna era andata a costruire un nuovo sistema di classificazione delle malattie, sempre più raffinato e articolato (si pensi ai lavori rivoluzionari di medici come Morgagni, Virchow, Bichat, Pasteur, per citare solo quelli più illustri).

Dal canto suo la psichiatria cercò di adeguarsi a tale paradigma classificatorio, non senza difficoltà, e alla fine si arrivò, tra la fine dell’ ‘800 e i primi del ‘900, al sistema nosografico di Emile Kraepelin, che si basava sostanzialmente sulla stabilità di presentazione di raggruppamenti di sintomi e sul loro decorso nel tempo. Fu lui l’inventore del concetto di Demenzia Praecox, poi ribattezzato come Schizofrenia da Eugen Bleuler nel 1911. Il problema per la psichiatria era che le lesioni istologiche e istopatologiche, così come i principi eziologici della malattia (aspetti che avevano caratterizzato tutta la rivoluzione moderna della clinica medica) non si trovavano, nonostante gli sforzi fatti da clinici e universitari non c’era modo di individuarli. E questo aveva fatto sì che una larga fetta di psichiatri rimanesse scettica su questi tentativi di equiparare la psichiatria alle altre patologie della clinica medica.

La prospettiva psicosociale della psichiatria

Nel corso del ‘900 la posizione dello psichiatra aveva quindi teso ad oscillare tra due opposte polarità: una prospettiva psicosociale e una prospettiva biomedica. Secondo la prospettiva psicosociale la malattia mentale era vista come una costruzione socioculurale, e quindi condizionata da paradigmi epistemologici di riferimento (quindi soggetta agli influssi di modelli culturali dominanti, a volte anche assoggetata ad esigenze di controllo politico e sociale). I sostenitori di questa prospettiva sottolineano come la follia nella storia non sia stata necessariamente considerata una malattia, e non sia sempre stata considerata in termini medici. Questa posizione è arrivata agli estremi dell’antipsichiatria, che considera la psichiatria una pseudoscienza e la schizofrenia una invenzione concettuale volta a medicalizzare il dissenso e la devianza. Esempio paradigmatico di questa posizione è stato sicuramente Thomas Szasz, che in suo libro abbastanza famoso degli anni ‘60, “Il mito della malattia mentale”, aveva accostato la schizofrenia all’invenzione della Coca-cola: “la schizofrenia è una parola, un’idea e una malattia inventata da Eugen Bleuler…così come la Coca-cola è una parola, un’idea e una bevanda inventata dal tipo che l’ha prodotta”.

Il modello medico-biologico della malattia mentale

D’altra parte invece, secondo la prospettiva biomedica della malattia mentale, la follia veniva considerata una malattia come le altre, posizionando la psichiatria nell’alveo delle scienze della natura. In questo caso si sottolineava come, nonostante i grandi cambiamenti nell’epistème, le manifestazioni cliniche della malattia mentale siano sempre rimaste abbastanza riconoscibili e stereotipate. Il limite di questa posizione è quello di considerare la malattia mentale alla stregua di qualsiasi altra malattia medica, e quindi di utilizzare la stessa metodologia della medicina per l’inquadramento e la comprensione dei casi. Chiariamo meglio questo aspetto. Quello che avviene in medicina è un un progressivo processo di astrazione dai singoli casi , con l’obiettivo di collocarli in categorie diagnostiche sovraordinate e astratte: non è tanto importante il caso singolo di Mario che ha la polmonite, ma la polmonite in sé con le sue cause e le sue lesioni sui tessuti. Il prezzo da pagare, per questo continuo processo di astrazione e classificazione che avviene nella clinica medica, consiste nella perdita della unicità e storicità del caso individuale. Se si entra in un reparto di medicina i pazienti con una polmonite sono considerati, più o meno, tutti uguali: ci sarà quello più grave e quello meno grave, quello con una sintomatologia importante o più sfumata, ma nessun medico si pone il problema della sua vita privata, se ha perso il lavoro, se è stato lasciato dalla moglie, se ha avuto un lutto recente, al massimo si cercherà di sapere se ha preso un colpo di freddo o se ha avuto contatti a rischio. Insomma delle caratteristiche peculiari di quell’individuo, della sua personalità importerà poco o nulla, una polmonite è una polmonite che tu ti sia Pinco Pallo o Albert Einstein. Bene, se il prezzo da pagare per l’inquadramento nosografico (che appiattisce l’importanza della persona alla centralità della malattia) di patologie come la polmonite, il tifo, l’ulcera gastrica, può essere considerato ben poca cosa, invece per le malattie mentali, dove peraltro non è mai stato possibile trovare una causa certa e riconosciuta, o delle lesioni di organo dimostrabili, il prezzo della perdita della storia individuale risulta essere assai più elevato.

Il grosso vantaggio dell’approccio medico alla psichiatria è stato quello di aver creato un linguaggio comune e condiviso dai più, di avere dato una taglio scientifico alla ricerca e quindi di avere reso possibile degli interventi di cura che negli anni hanno mostrato di riuscire ad essere sempre più efficaci. Ricordiamo che tra gli anni 50 e gli anni 70 avviene una vera e propria rivoluzione in psichiatria, con la scoperta di una serie di farmaci (dal litio, ai primi antipsicotici e antidepressivi) che si dimostreranno di grande efficacia per il trattamento della maggior parte delle patologie nervose, dalla depressione ai disturbi d’ansia, dai disturbi psicotici (schizofrenia e bipolare) al disturbo ossessivo-compulsivo. Prima di questa rivoluzione psicofarmacologica le possibilità d’intervento della psichiatria erano poche e generalmente violente: dalla “cura del sonno” (ideata dallo svizzero Klaesi negli anni 20 attraverso una prolungata e massiccia somministrazione di barbiturici), all’induzione di stati convulsivi attraverso coma insulinico (Sakel), induzione di farmaci (von Meduna) o scariche elettriche controllate (come gli elettroschock degli italiani Cerletti e Bini), fino alla pratica della lobotomia, che ebbe una sua strana e immeritata fortuna negli anni ‘50 in USA. Dalla fine degli anni 50 l’era degli psicofarmaci spazza via progressivamente queste pratiche e rende via via più praticabile la strada di cure più adeguate, efficaci e meno violente per gran parte delle patologie psichiatriche.

Teoria psichiatrica della depressione

Prendiamo tra tutti l’esempio della depressione: le teorie psichiatriche più aggiornate e accreditate sostengono che negli stati depressivi si assista ad una compromissione nella produzione/trasmissione delle catecolamine cerebrali (neurotrasmettitori come la serotonina, la noradrenalina e la dopamina) e ad un impoverimento dei fenomeni di neuroplasticità cerebrale in alcune zone del SNC (sicuramente a livello ippocampale e molto probabilmente anche a livello della corteccia prefrontale). I dati a sostegno di questa ipotesi possono essere raggruppati in tre argomenti principali:

1) condizioni di stress prolungato riducono la neurogenesi ippocampale (produzione di nuovi neuroni) e i fenomeni di neuroplasticità (formazione di nuove sinapsi e nuovi collegamenti sinaptici tra neuroni) a livello della corteccia prefrontale e, soprattutto, a livello dell’ippocampo. Nei pazienti depressi è stato più volte dimostrata una riduzione della morfologia dell’ippocampo.

2) E’ stato messo in evidenza da una corposa letteratura scientifica che i trattamenti con gli antidepressivi possono prevenire questi aspetti.

3) I fenomeni di neuroplasticità così come la trasmissione di catecolamine nei pazienti depressi si è visto possono essere incrementati dall’utilizzo degli antidepressivi.

Questo vuol dire che i trattamenti farmacologici, quando correttamente utilizzati, possono sanare quell’impoverimento neuronale che la psicopatologia può determinare. Quel miglioramento clinico che si può osservare dopo qualche settimana di trattamento, che i pazienti riferiscono spesso con entusiasmo, come una condizione di benessere che temevano di aver perso per sempre, può trovare il suo corrispettivo biologico in una maggiore crescita neuronale di alcune regioni specifiche di tessuto nervoso.

A questo punto si può dire che la psichiatria del XXI secolo si è finalmente compiuta nella sua dimensione medico-biologica ? Che la psichiatria, attraverso la potente arma della farmacologia, ha risolto in maniera definitiva il problema della sofferenza delle patologie mentali? Su questa enfasi terapeutica della psichiatria biologica solleverei più di qualche dubbio, proprio in ragione di quanto scritto in precedenza: il modello medico, pur mostrandosi di grande efficacia, appiattisce la sofferenza a categoria, tende a trascurare le storie individuali e a non mostrarsi interessato ai significati personali: da questa prospettiva il depresso si perde nella diagnosi della depressione.

Sofferenza individuale, psicoterapia e possibilità di cambiamento

Ed è da questo punto di vista che il contributo dato dalla psicologia e dalle pratiche psicoterapeutiche al trattamento della sofferenza nei disturbi mentali può essere oltremodo incisivo. Infatti lì dove la psichiatria esercita le sue competenze attraverso la diagnosi e la psicofarmacologia, lo psicologo può intervenire sulla sofferenza personale attraverso la ricostruzione dei vissuti individuali, delle dinamiche emotive, della ricostruzione dei significati e dell’esperienza in prima persona: insomma attraverso quella pratica dai molteplici indirizzi e variegate sfaccettature chiamata psicoterapia.

Ma cos’è la psicoterapia? Difficile pretendere di fare discorsi esaustivi su una pratica che presenta infinite sfaccettature, molteplici modelli teorici di riferimento, scuole di pensiero a volte radicalmente diverse, quando non drasticamente contrapposte tra loro. Volendo molto semplificare possiamo definire la psicoterapia (o meglio le psicoterapie) una modalità di intervenire sull’esperienza personale, sui propri movimenti emotivi, sulle storie, sulla narrazione che ognuno di noi fa della propria vita in un determinato momento, e che fondamentalmente si pone due finalità: il contenimento della sofferenza e il cambiamento personale. Naturalmente fare un discorso generale sulle psicoterapie in poche battute è un’impresa improponibile, considerando che ci troviamo di fronte un universo costituito da galassie molto articolate al loro interno e molto distanti le une dalle altre. Quindi ho pensato di parlarne ricorrendo ad un libricino di Alessandro Baricco, pubblicato lo scorso anno, sulla narrazione, che mi è sembrato un ottimo spunto per affrontare in maniera sintetica e descrittiva il discorso su ciò che caratterizza una psicoterapia, su quelli che sono gli aspetti distintivi che possiamo trovare nella maggior parte delle forme di psicoterapia, se non in tutte.

Storia, trama e racconto

Il libro di Baricco è in realtà una trascrizione di una lezione da lui tenuta alla scuola Holden in cui cercava di fare il punto sul tema della narrazione e degli stili narrativi, naturalmente in relazione alla produzione letteraria. Inizia la sua lezione cercando di mettere a fuoco la distinzione tra storia, trama e racconto. Esordisce con una sua definizione di ‘storia’ che trovo molto bella ed efficace :

Accade talvolta che singole tessere del reale escano dal rumore del mondo e si mettano a vibrare con un’intensità particolare, anomala. Alle volte è come un piacevole frullare di ali. Altre è come una ferita che non vuole richiudersi, una domanda che attende una risposta. Una giornata di caccia per un uomo preistorico, o il lampo di uno sguardo in metropolitana, per noi. Là dove si verifica quella vibrazione si genera una sorta di intensità che, quando dura nel tempo – superando lo statuto di pura e semplice meraviglia – , tende ad organizzarsi e diventare figura disegnata nel vuoto. Si direbbe che per ottenere una certa permanenza generi intorno a sé un campo magnetico, dotato di una sua geometria. Noi diamo un nome particolare a questi singolari campi magnetici. Il nome è: storie.”

Una storia è dunque costituita da nuclei di significato che, come campi magnetici, rappresentano degli attrattori per altri significati che, raggruppandosi seguendo delle linee e delle distanze, vanno ad occupare uno spazio che è uno spazio sferico, che si costituisce su più dimensioni. Il racconto invece ha la funzione di dar forma alla storia e per far questo deve avere delle caratteristiche: deve perdere del materiale (non tutti i nuclei tematici di una storia possono essere portati ad espressione nel racconto); devono seguire una narrazione lineare (il racconto è bidimensionale, là dove la storia vive su dimensioni pressoché infinite); deve essere incanalato in una trama. La trama quindi la possiamo definire come una viaggio lineare dentro una storia: è destinato ad attraversare solo alcuni punti di una storia, ne potrà rendere visibile solo una parte. Una trama per essere efficace deve riuscire a mettere in sequenza non solo gli eventi, ma anche gli ambienti, le tonalità affettive, i contesti, e nel fare questo deve riuscire a trasportare sulla superficie lineare e piana del racconto, la complessità sferica di una storia. Le trame abitano le storie, le attraversano, sono mappe che le raffigurano, dice Baricco. “L’idea che una storia sia riportabile integralmente allo sviluppo lineare di un personaggio è ingenua e riduttiva”.

Psicoterapia e narrazione di sé 

La costruzione di un personaggio possiamo considerarla per analogia assimilabile al racconto che un paziente porta in terapia: il paziente nel raccontare la sua storia necessariamente descrive un personaggio. Il racconto è caratterizzato da una trama narrativa che rappresenta una riduzione lineare, più o meno significativa, di quel mondo sferico e spaziale che sono le storie. Le storie infatti, secondo Baricco, prendono forma in “un universo alchemico e magmatico: la chimica della trama ne riesce ad illuminare solo una minima parte”. La costruzione di una trama è fondamentale per appropriarsi di una storia, ma non sempre una trama riesce a rendere conto della complessità e della molteplicità dei nuclei tematici delle storie. Dietro la narrazione di una storia attraverso una trama c’è sempre la convinzione che le cose accadano in forma lineare e secondo un’architettura ordinata e razionale.

Perché queste riflessioni sulle storie e sulla narrazione sono importanti per il mondo della psicoterapia? Perché quando una trama non riesce a tener conto di pezzi importanti delle storie, frammenti di esistenza che generalmente rimandano a paesaggi e ricordi, ambienti e affetti profondi e nucleari, quando la trama diventa troppo discrepante rispetto ai contenuti delle storie, ecco, è in questi casi che emerge l’aspetto psicopatologico. E da questa prospettiva il lavoro dello psicoterapeuta dovrebbe consistere nell’allargare e articolare la trama narrativa dei pazienti, consentendo loro di recuperare quei temi e quei significati nucleari, che cambiano e possono essere più caratteristici a seconda dei vari mondi della psicopatologia e dei relativi stili di narrazione. Ad esempio per un paziente con attacchi di panico la trama narrativa sarà centrata sulla propria sintomatologia fisica e sulle possibili malattie, e non saranno contemplate le dinamiche emotive che possono avere innescato la crisi di panico. E per un depresso la sua trama narrativa sarà centrata sui temi di fallimento e di sentirsi sempre un perdente, nonostante i dati dell’esperienza possono deporre esattamente per il contrario, ma il suo racconto può essere più cogente dei dati dell’esperienza. La narrazione ha sempre bisogno di un corpo che è dato dal patire e dall’agire del personaggio. Ma il personaggio che ognuno di noi si racconta è sempre anticipato dalla sua narrazione, che in qualche modo lo determina. Ed è anche per questo che a volte ci si ritrova ad essere i protagonisti della propria storia, a volte ci si sente mere comparse.

Nel raccontare una storia attraverso una trama si fanno delle scelte, si decide di mettere insieme delle tessere del racconto piuttosto che altre. Ma cosa ci spinge a costruire un personaggio piuttosto che un altro?. E su questo punto Baricco prosegue: “Sembra plausibile pensare che almeno parte di queste tessere, di queste scelte narrative, provenga da una zona pre-razionale o post-razionale del narratore… una regione su cui la coscienza esercita un controllo molto relativo…… Quartieri dell’Io che stanno fuori le mura, cresciuti allo scoperto al di là delle fortificazioni erette dal principio di realtà… Si potrebbe dire: tessere dell’inconscio”. E probabilmente non è un caso che concluda la sua lezione citando Lacan e il suo concetto d’inconscio: “non il contenitore di un passato rimosso, ma il capitolo lasciato ancora in bianco nel testo di un’esistenza… Non qualcosa che viene dal passato, ma dal futuro anteriore”. ““Pensava (sempre citando Lacan), con una riflessione esteticamente splendida, che non dobbiamo immaginarci come il germoglio di un seme, né il risultato di un passato: ma piuttosto come la conseguenza ancora incompiuta di un futuro anteriore. Siamo l’avverarsi di una profezia che ancora giace, non scritta, nel nostro inconscio, nelle pagine della nostra storia che abbiamo lasciato bianche”.

Questo vuol dire che nel racconto che ognuno di noi fa di sé stesso, non esprimiamo tanto il nostro passato ma cerchiamo di raccordare il nostro futuro e il nostro presente con la nostra storia personale. E questa storia non è data soltanto dalla nostra narrazione, dal personaggio che ci raccontiamo, ma anche da tutto ciò che è parte della storia ma non è afferrato dalla trama narrativa, incluso quei “quartieri dell’io” che sono al di là delle mura della consapevolezza. Ed è proprio su questo raccordo tra tempo presente, esperienza del passato e orizzonti di senso del futuro, che il mondo delle psicoterapie si va a costituire.

Bibliografia

  1. Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th Edition). American Psychiatric Association, Washington, DC. 2013
  2. Rosenhan D. L. “On being sane in insane places” , Science, vol. 179, 1973
  3. Kraepelin E.  Psychiatrie: Ein Lehrbuch fur Studirende und Aerzte. Fünfte, vollständig umgearbeitete Auflage. Leipzig 1899. Trad. it. Trattato di Psichiatria.  Milano: Vallardi 1907.
  4. Bleuler E. Dementia praecox oder die Gruppe der Schizophrenien.  Leipzig und Wien: Franz Deuticke 1911.
  5. Szazs T. Il mito della malattia mentale . Ed. italiana Il Saggiatore, 1966
  6. Eliwa H, Belzung C, Surget A,  Adult hippocampal neurogenesis: Is it the alpha and omega of antidepressant action? Biochem Pharmacol. 2017 (Oct 1;141:86-99)
  7. Samuels BA, Hen R   Neurogenesis and affective disorders. Eur J Neurosci. 2011 (Mar;33(6):1152-9)
  8. Taciak PP, Lysenko N, Mazurek AP,   Drugs which influence serotonin transporter and serotonergic receptors: Pharmacological and clinical properties in the treatment of depression. Pharmacol Rep. 2017 Jul 16;70(1):37-46    (Review)
  9. Baricco A.  La Via della Narrazione.  Feltrinelli Editore, 2022.

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