Psichiatra e Psicoterapeuta

Il mondo degli ipocondriaci

Nel 1734 in Inghilterra veniva pubblicato un libro dal titolo “The English Malady”. L’autore era un noto medico inglese, George Cheyne, che si confrontava con il problema delle ‘malattie nervose’ dell’epoca (da qualcuno viene considerato una sorta di antesignano di Freud) sostenendo che potevano essere considerate effetti del processo di ‘civilizzazione’ del suo secolo. Nel libro Cheyne descriveva la sintomatologia più frequente mente riscontrata nei suoi pazienti ‘nervosi’, caratterizzata da dolori immaginari, spasmi muscolari, cefalee ricorrenti, flatulenze e disturbi della digestione, vertigini e capogiri, disturbi del sonno, pallore, mancanza di appetito, paure insolite e preoccupazioni immotivate sulle proprie condizioni di salute.

In quegli anni i disturbi nervosi con manifestazioni ipocondriache stavano iniziando a diventare una sorta di malattia alla moda tra le classi abbienti dell’Europa. Cheyne ne parlava come di una patologia estremamente diffusa e frutto di quell’agiatezza e di quell’opulenza che avevano caratterizzato le classi sociali più elevate ai tempi dell’impero. Nella seconda metà dell’ ‘800 l’ipocondria sarebbe stata sostituita, come patologia ‘alla moda’, da una sua parente stretta, l’ isteria, che riguardava soprattutto l’universo femminile, ma anche questa caratterizzata da una centralità tematica sulla ‘corporeità’ delle pazienti. Anche in questo caso infatti il corpo, nello specifico soprattutto quello femminile, veniva presentato e rappresentato come ‘oggetto e luogo’ principale della propria sofferenza.Il tema centrale del mondo dell’ipocondria è quello della corporeità, in particolare intesa nella sua problematicità e difficoltà a riconoscerne la significatività, la capacità di dar senso alla propria esperienza di vita, con una evidente incapacità a leggerne la dimensione emotiva. Ricordiamo che le nostre emozioni prendono forma mostrando una matrice originaria nelle nostre variazioni corporee: quando proviamo vergogna, innanzitutto e per lo più arrossiamo, e quando ci troviamo di fronte ad un pericolo improvviso è il corpo che ci segnala in maniera immediata, con il suo cuore che batte all’impazzata, la tensione muscolare o le mani che iniziano a tremare, quello che sta succedendo. Nell’ ipocondria invece il corpo diventa una sorte di oggetto estraneo al proprio mondo emotivo, viene vissuto come qualcosa di opaco, di difficile interpretazione, si fa fatica a riconoscerne il suo rapporto originario con l’esperienza emotiva. L’ipocondriaco dà l’impressione di portarsi dietro il proprio corpo come un ingombro, un qualcosa che nella migliore delle ipotesi è silente, rimane lì come un oggetto inerte senza dare segni di sé, ma nelle situazioni critiche diventa fonte di sintomi irriducibili, di potenziali malattie mai accertate, di una sofferenza gravosa ma comunque estranea alla propria interiorità. Dire che si soffre di colon irritabile, piuttosto che di cefalee ricorrenti o di fibromialgia, diventa anche un modo per non parlare della propria vita emotiva.

Cartesio e il dualismo mente-corp0

 

Rene Descartes

Probabilmente non è un caso che un tema del genere, così centrato sulla corporeità, inizi ad essere problematizzato nel corso del XVIII sec prima e del XIX sec poi. Infatti questi sono i secoli che seguiranno la nota distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Era stato infatti il ‘rasoio cartesiano’ che, nella sostanza, aveva consentito di separare in maniera netta, decisa e definita, l’anima dal corpo. Cartesio infatti alla metà del ‘600, nelle “Meditazioni Metafisiche” , e ancora di più nel trattato su “L’Uomo “ (che uscirà postumo nel 1664), aveva descritto l’uomo come una macchina, un congegno automatico il cui funzionamento poteva essere spiegato, semplicemente e completamente, in termini meccanicistici. Il corpo umano infatti veniva descritto dal filosofo come “una statua o macchina di terra...nient’altro che un meccanismo, un congegno composto di ossa, di muscoli, di nervi, di vene, e di sangue e di pelle che, anche se non vi esistesse mente alcuna, eseguirebbe nondimeno tutti quegli stessi movimenti”. E più avanti proseguiva: “…vi prego poi di considerare che tutte le funzioni da me attribuite a questa macchina…derivano naturalmente dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di come i movimenti di un orologio o di un altro automa derivano da quelli dei contrappesi e delle ruote”. Questo nella sostanza voleva dire, in opposizione alle tesi allora dominanti della scolastica di tradizione aristotelica, separare il corpo dall’anima.La riflessione filosofica cartesiana era stata rivoluzionaria, in quanto aveva riportato il corpo nell’alveo delle scienze positive, delle scienze della natura. Separandolo dalla res cogitans (dall’intelletto, dalla mente pensante) gli aveva tolto qualsiasi significatività spirituale, lo aveva desacralizzato, e quindi consegnato, come pura materia, nelle mani della nascente medicina scientifica. L’idea di Cartesio era quella di spiegare il corpo umano come se fosse semplicemente una macchina, e quindi di poterne descrivere le sue modalità di funzionamento attraverso i principi della meccanica e delle geometria, della chimica e della fisiologia. Il corpo umano, descritto a questo punto come una sorta di automa, una “statua di terra”, viene liberato da ogni pregiudizio metafisico, da ogni tutela di tipo religioso, per essere assegnato completamente al mondo della medicina. In definitiva il corpo delle scienze mediche veniva liberato dell’ingombrante presenza dell’anima, era reso oggetto di studio delle scienze naturali e il massimo momento di approfondimento conoscitivo era rappresentato dall’indagine autoptica in sala settoria.

Questo passaggio ha favorito la fortuna della medicina occidentale, ma il prezzo da pagare è stato quello della crisi del ‘soggetto’ nella sua unitarietà. Infatti la separazione cartesiana mente-corpo si portava dietro la perdita della significatività originaria del corpo. (Teniamo sempre presente che il nostro corpo rimane in realtà il terreno costitutivo della nostra vita emotiva, ed ha una dimensione molto più profonda e articolata di quella che può essere rappresentata dalla scienza medica: la sofferenza di noi umani in quanto corpi viventi va molto al di là delle sue lesioni istologiche o fisiopatologiche, le ‘sofferenze del cuore’ sono qualcosa di molto più complesso e articolato di quanto possa essere descritto dalla cardiologia).

Il problema dei medically unexplained symptoms

 

Il mondo dell’ipocondria rappresenta in maniera paradigmatica questa separazione, e naturalmente i paradossi che si porta dietro. Per cercare di descriverlo al meglio partiamo da un fenomeno clinico poco conosciuto nel mondo scientifico italiano e invece abbastanza noto nella letteratura internazionale: il fenomeno dei medically unexplained symptoms (MUS). Questa è un’espressione sempre più utilizzata nella letteratura scientifica degli ultimi decenni per indicare un’ampia casistica di sintomi somatici, che non sono supportati da evidenze cliniche e da spiegazioni mediche unanimemente accettate. Sono sintomi quindi che non sono riferibili ad alcuna malattia intesa in senso convenzionale (cioè con lesioni istopatologiche accertate, cause note, una fisiopatologia unanimamente riconosciuta ). Le forme più frequenti di queste patologie sono : la sindrome del colon irritabile, la sindrome da affaticamento cronico, le fibromialgie, il dolore toracico non cardiogeno, il dolore pelvico senza obiettività organica, ecc… La maggior parte di questi pazienti, che hanno una patologia senza evidenze cliniche dimostrabili, possono ricevere vari tipi di trattamenti, ripetuti approfondimenti diagnostici, reiterati invii alla medicina specialistica, senza mai venire a capo del loro problema, con consumi di costi e risorse per il Sistema Sanitario progressivamente crescenti. Si ritiene che tali pazienti rappresentino le richieste nella medicina generale dal 30 al 60% dei casi. Uno studio di qualche anno fa nel Regno Unito stimava che i costi annui sul sistema sanitario per questo tipo di patologie era di più di 3 miliardi di sterline (su una spesa sanitaria totale di 18 miliardi), e questo nonostante la difficoltà di definizione di questo tipo di patologie. Pensiamo al caso della fibromialgia, condizione clinica riconosciuta anche dall’ OMS negli anni 90 come patologia, che in Italia colpisce più di due milioni di persone, caratterizzata dal fatto di non avere alcun corrispettivo istopatologico o diagnostica di laboratorio che la possano dimostrare, e per tale motivo rimane spesso una diagnosi misconosciuta e controversa (ancora oggi molti clinici rimangono scettici sulla sua esistenza). I medically unexplained symptoms (Mus) rappresentano una gran parte del mondo dell’ipocondria. Infatti in questi casi ci troviamo di fronte ad una sintomatologia fisica di difficile definizione da parte della scienza medica, sintomatologia che di frequente è espressione di una richiesta d’attenzione inascoltata e non meglio definita da parte del paziente. Queste manifestazioni cliniche senza evidenze mediche dimostrabili mettono alla prova allo stesso tempo la credibilità e la competenza professionale dei medici e, dall’altra parte, la credibilità e la legittimità dei pazienti. Teniamo presente che un processo diagnostico consiste nell’identificare dei sintomi e metterli in relazione tra loro, risalire a delle cause che spieghino tali sintomi (ad esempio il mal di gola e la tosse con il virus dell’influenza), e giungere infine ad una diagnosi che spieghi il problema presentato (ad es il deficit dell’insulina che determina un significativo aumento degli zuccheri nel sangue, e l’ associazione nel tempo di questa condizione che prende il nome di diabete). Nel mondo dell’ipocondriaco questo paradigma viene messo in crisi : i medici non riconoscono la realtà, la natura ‘fisica’, il dato oggettivo del malessere, e tendono ad interpretare i loro sintomi come di natura psicologica ( “è tutto nella sua testa…” si sentono spesso ripetere questi pazienti). Il rischio per il paziente è quello di essere considerato illegittimo, una sorta di paziente-fake, mentre per il medico il rischio è quello di non essere ritenuto abbastanza preparato. Va da sé che questa dinamica rende generalmente difficile e conflittuale il rapporto medico-paziente. Infatti da questa prospettiva non basta essere sofferenti per vedersi riconosciuti come malati, lo status del ruolo di malato va continuamente negoziato. Nella pratica clinica assistiamo da una parte ai vissuti di frustrazione del medico di fronte ad un paziente che non riesce a diagnosticare, e che gli evoca spesso sentimenti di impotenza. Mentre dall’altra ci sono le aspettative dei pazienti con la loro sofferenza che richiede una legittimazione, sofferenza che spesso può anche essere molto invalidante rispetto alla propria vita. E’ come se medici e pazienti, in questi casi più spesso che altrove, si comportassero da antagonisti che usano specifiche strategie per affermare la propria autorità, enfatizzando le rispettive aree di competenza: la conoscenza della semeiotica medica da una parte, verso quella del proprio corpo in prima persona dall’altra. Questo spiega perché le esperienze dei medici e dei pazienti sono, in questi casi, spesso caratterizzate da sentimenti di risentimento e ostilità reciproci.E poiché la medicina ufficiale non riesce nella maggior parte dei casi a dar conto della dimensione clinica di queste patologie, e quindi a riconoscerle come ‘reali’, uno dei tentativi che è stato fatto è quello di raggrupparli nella classificazione della malattie psichiatriche come Disturbi Somatoformi (classificazione che è stata ulteriormente rivista nell’ ultima edizione del DSM, dove gli è stato proprio cambiato il nome, e sono stati ridefiniti come Disturbi da Sintomo Somatico). Dal punto di vista della clinica psichiatrica la loro definizione è di “sintomi fisici che fanno pensare ad una condizione medica generale, ma che non sono giustificati da una condizione medica generale”. Ma molte di queste patologie rappresentano delle categorie diagnostiche che si ritrovano in una terra di confine, abbastanza indefinita, tra malattia medica e sindrome psichiatrica (come la fibromialgia, il colon irritabile, la sindrome da stanchezza cronica, il dolore pelvico cronico…). Ed è proprio l’esistenza di queste patologie, e della loro difficoltà di definizione che le porta ad occupare una terra di nessuno, sempre in discussione tra clinica medica e psicopatologia, che mette in crisi la dicotomia cartesiana mente-corpo. Quella per cui o esiste una sintomatologia fisica riconosciuta dalla medicina ufficiale, o sei ‘matto’, quindi da annoverare tra i pazienti psichiatrici.

I pattern familiari

 

In realtà il problema grosso dell’ipocondriaco è quello di riconoscere e appropriarsi della propria corporeità in quanto sede originaria della propria esperienza di vita, dei propri movimenti emotivi. Fin dall’ infanzia, nelle famiglie degli ipocondriaci, la propria esperienza del mondo, che è un’esperienza primariamente emotiva, e come sappiamo costituisce una esperienza originariamente corporea, viene disconfermata dalle figure genitoriali e ridefinita in termini di possibile sintomatologia somatica: se un bambino presenta cefalee ricorrenti (ma lo stesso può valere per qualsiasi altro sintomo somatico), il genitore lungi dal chiedersi se c’è qualcosa che non va nel contesto familiare (magari rapporti difficili con il marito, insoddisfazioni e rancori tra i coniugi, frustrazioni nella propria realizzazione professionale, relazioni extraconiugali più o meno problematiche), comunque lungi dall’interrogarsi su quello che accade nel proprio mondo emotivo e nell’universo familiare, tende a spiegare il disagio del bambino in termini di possibile malattia fisica, sottoponendo spesso il figlio ad una lunga serie di visite e accertamenti medici. Non viene presa in considerazione la possibilità che i sintomi somatici presentati dal bambino siano espressione di un disagio emotivo, che riguarda in genere le dinamiche familiari. Il bambino si ritrova con delle figure genitoriali molto centrate su di lui, ma con una scarsa propensione a riconoscerne la dimensione emotiva. In realtà sono gli stessi genitori che hanno difficoltà nel riconoscere e quindi gestire sia la propria di emotività che quella del figlio. Pertanto tutto è spiegato in termini di possibile problema fisico/malattia, e questo rimanda al bambino un senso di fragilità fisica, che è un tema che tende a monopolizzare gran parte della narrazione familiare. Ma questa fragilità fisica è anche fragilità emotiva, e di questa sono molto meno consapevoli. Anche nei soggetti fobici, come abbiamo visto, è frequentemente presente un genitore molto centrato sul bambino, che ne limita i comportamenti esplorativi, determinando un mondo emotivo povero di esperienza, costituito da poche tonalità emotive con le quali il bambino ha familiarità, una su tutte la paura. In questo caso però il problema del fobico è quello di doversi confrontare con un mondo emotivo caratterizzato da un ‘range’ molto ristretto, che va tenuto costantemente sotto controllo, e al superamento della soglia la paura emerge improvvisa, magari come attacco di panico. Nelle famiglie degli ipocondriaci invece il mondo emotivo è costantemente ridefinito in termini di sintomi fisici, quindi il problema del bambino non è tanto quello di tenere sotto controllo la propria attivazione emotiva, quanto quello di dare un significato alle proprie emozioni, considerato che l’atteggiamento genitoriale è generalmente quello di ridefinirle in termini di possibile malattia. Facciamo un esempio concreto: un mio paziente fobico (di circa 30 anni) con una storia di attacchi di panico, con il padre medico in un piccolo paese del frosinate, entrambi socialmente molto affermati. Il paziente ha una fidanzata che da alcuni mesi ha vinto un concorso al nord, e quando la ragazza deve prendere il treno per ripartire, il padre accompagna entrambi, lui e la fidanzata, alla stazione. Perché se il ragazzo dovesse sentirsi male c’è lui, il papà medico, che può soccorrerlo! E questa storia va avanti regolarmente da mesi. Come vedete in questo caso il problema del riconoscimento e della definizione dell’emozione non viene proprio posto, così come non esiste un problema di giudizio: rientra addirittura in una narrazione più o meno accaettata il fatto che a 30 anni il padre lo debba accompagnare alla stazione con la fidanzata. Il problema principale del fobico è tenere sotto controllo la propria attivazione emotiva, e nel caso avere vicino una figura di riferimento vissuta come protettiva. Per il resto non si fanno grandi problemi, neanche se lo pongono il problema del giudizio degli altri. Invece la narrazione degli ipocondriaci è sicuramente diversa e più complessa: avendo una marcata difficoltà a riconoscere le proprie emozioni, uno dei loro problemi principali è quello di essere sempre molto sintonizzati sui giudizi degli altri. E in relazione a questo sono sempre molto dipendenti dalle possibili definizioni e valutazioni che possono ricavare dagli altri, la loro esperienza del vivere è costantemente ancorata allo sguardo dell’altro. Anche in questo caso un esempio clinico può chiarire meglio il concetto: una mia paziente con problemi di dolore cronico e habitus ipocondriaco mi raccontava che quando usciva con un nuovo ragazzo, per capire se le piacesse o meno, utilizzava quella che lei definiva la sua “prova del nove”. Provava a pensare se fosse piaciuto al suo primo ragazzo storico (suo grande amore dei 20 anni, con il quale però le cose ad un certo punto non erano andate). Se avesse avuto la sua approvazione (naturalmente immaginaria) allora il nuovo corteggiatore passava la prova. Naturalmente il secondo test era se fosse piaciuto alla mamma. Quindi era tutto un gioco di rimandi dell’immaginazione, di continuo lavorio del pensiero, attraverso il quale cercava di avere qualche informazione su quello che lei poteva provare per questa nuova persona. Voi capite che in questo modo di procedere il proprio corpo è un puro orpello, quasi un ingombro nel momento in cui dovesse mandare segnali di sé. Il ‘cosa si prova’ viene per lo più ricavato dalle valutazioni degli altri: non c’è tanto un problema di mantenere sotto controllo la propria attivazione emotiva, quanto quello di non riuscire a fidarsi della propria emotività, che è sempre emotività incarnata, quindi corporeità originaria, e questo li porta ad essere continuamente alla ricerca di indizi, segnali dall’esterno per cercare di capire quello che stanno provando. In questo caso la costruzione di una propria identità personale sarà quindi caratterizzata da una narrazione che vede, da una parte, una corporeità che emerge generalmente in maniera opaca e confusa dalle proprie esperienze di vita, e dall’altra, da una costante incertezza sul senso da attribuire a questa esperienza e ai propri movimenti emotivi. Un tema importante del mondo degli ipocondriaci è rappresentato da una persistente difficoltà a riconoscere la propria vita emotiva, che tende ad essere letta come una serie di modificazioni corporee da riferire ad una qualche possibile malattia. E in questa difficoltà a riconoscere ciò che provano, a leggere le proprie emozioni, ecco che il giudizio dell’altro è determinante e ricercato per arrivare ad una maggiore comprensione di sé. E voi capite che dalla prospettiva della medicina ufficiale è difficile cogliere il disagio e la sofferenza che l’ipocondriaco manifesta, in quanto sia la spiegazione medica (il sintomo fisico come espressione di una malattia medica) sia la spiegazione psicologica (il sintomo fisico come espressione di patologia mentale) si rivelano una lettura parziale, spesso inconcludente, poco efficace, poco empatica e fallimentare.

Ipocondria e paranoia

 

Da questo punto di vista il corpo dell’ipocondriaco è un corpo disincarnato, poco significativo in termini emotivi, ma molto presente in termini di ricerca di riconoscimento e legittimazione da parte dell’altro. Il corpo viene a rappresentare una sorta di oggetto destorificato (cioè privo di una propria storia emotiva), al centro di costanti attenzioni e continue preoccupazioni, qualcosa di cui si rivendica il possesso, ma come lo si farebbe per un importante oggetto di uso quotidiano, come un’ automobile o uno smartphone, che può funzionare bene e avere grandi prestazioni, o può rompersi e dare continui problemi. Ma l’atteggiamento dell’ipocondriaco rispetto al proprio corpo rimane sempre sul filo della sofferenza e del tormento da un lato, e della esibizione e del compiacimento dall’altro.
Secondo alcuni autori nel mondo dell’ipocondria si ritrovano elementi psicopatologici in comune con quelli della paranoia: ad es. una diffidenza di fondo, più o meno profonda e strutturata, nei confronti degli altri, in questo caso dei medici che non sono in grado di comprendere il loro problema e quindi di aiutarli. Ma la diffidenza è un tratto distintivo che caratterizza anche il rapporto con sé stessi, con quello che sentono, con il proprio corpo, con le possibili malattie. Altro tema che hanno in comune l’ipocondria e la paranoia è quello dell’ argomentare , caratterizzato da una continua, e fastidiosa ai più, ricerca di accreditamento delle proprie idee e delle proprie convinzioni. Nel caso dell’ipocondria la ricerca è di riconoscimento medico, nel caso della paranoia riconoscimento sociale dei propri deliri persecutori. In entrambi i casi si possono sviluppare delle narrazioni da querulomani, dove i medici diventano “una collezione di sconfitti”, accomunati dalla loro incompetenza e dalla incapacità di guarirli.

Il mondo dell’ipocondriaco ripropone il problema della centralità dell’individuo nella sua unità originaria corpo-mente, dell’integrità del soggetto come significatività incarnata, insomma della inadeguatezza del paradigma dualistico cartesiano nell’afferrare la sofferenza e il dolore della persona nella sua unicità e complessità. Come scriveva Gilles Bibeau, uno dei fondatori di quella branca dell’antropologia nota come Antropologia Medica: “Le vite degli umani riguardano e prendono forma da storia, linguaggio, significati, sistemi simbolici, esperienza, consapevolezza ed emozioni che insieme formano delle unità che solo in grado limitato possono essere spiegate razionalmente o descritte dalla scienza”.

E’ importante tenere presente questo discorso quando si ha di fronte un paziente ipocondriaco, in quanto dobbiamo capire che attraverso la sofferenza ostentata del proprio corpo, il paziente in realtà vuole parlare d’altro. I propri sintomi fisici indicano dei percorsi attraverso i quali arrivare a degli snodi emotivi delle proprie storie di vita, la propria ansia di malattia fa riferimento ad aspetti narrativi non tematizzati e che richiedono l’ascolto dovuto. Liquidare i sintomi dell’ipocondriaco come fake, come qualcosa di inconsistente che sta solo dentro la sua testa, come una modalità irriverente di sfidare la competenza a l’autorità della scienza medica, è un atteggiamento che condanna l’ipocondriaco ad un mondo senza altre possibilità di espressione, destorificato e disincarnato, definitivamente privato di quell’anima che il “genio maligno” di un filosofo del ‘600 aveva deciso di rubargli.

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