Psichiatra e Psicoterapeuta

Vittorio Guidano a dieci anni dalla scomparsa: intervista a Giampiero Arciero di Davide Liccione

Giampiero Arciero

Intervista di Davide Liccione

LICCIONE: se sei d’accordo potremmo partire dall’epistemologia. Vittorio asseriva di essere passato dalla ricerca di base in campo biologico allo studio della psicologia in seguito alle trasformazioni sociali del ’68. Il cambiamento d’interesse scientifico si è tradotto in una modificazione dell’oggetto di studio: dalla cellula al “Self”, rifiutando come adeguati metodi scientifici sia l’approccio materialista-riduttivista della scienza biologica sia la psicoanalisi. Nell’ambito della nuova disciplina, la psicologia, compie un percorso che si dispiega dal comportamentismo skinneriano all’interesse per la fenomenologia ermeneutica, attraversando il filone cognitivista e la biologia della conoscenza della scuola di Santiago. Nel corso di questa evoluzione è sempre stato molto attento alla ricerca di base e ha costruito un modello teorico i cui fondamenti derivano da differenti discipline: filosofia della scienza, epistemologia evolutiva, fisica teorica, biologia della conoscenza, antropologia, etologia umana, evoluzionismo. Vittorio amava raccontare l’evoluzione del suo pensiero teorico come conseguenza del susseguirsi di vere e proprie rivoluzioni epistemologiche: dall’empirismo al razionalismo, fino al post-razionalismo.

Il termine post-razionalismo è appositamente vago? Qual è lo sfondo epistemologico dell’ultimo Vittorio? Qui mi pongo alcuni dubbi che vorrei condividere e che riguardano una possibile e ulteriore svolta epistemologica. Per Vittorio la conoscenza individuale era un processo auto-organizzato che si alimentava di perturbazioni ambientali significandole secondo limiti strutturali interni. Questo concetto lo troviamo, tra gli altri, in Hayek (1952; 1978), in Heinz von Föerster (2001; 1982) e, meglio articolato, in Humberto Maturana (2006). Nei suoi testi Vittorio Guidano (1991) utilizza i concetti del pragmatismo di G. H. Mead di e quali fondamenti dell’idea del Sé. Secondo G. H. Mead (1938) il Sé non è immediato, richiede una mediazione storica e simbolica con l’ambiente. Il neonato, in quest’ottica, non ha ancora un Sé e si apre il problema dell’essere mio – sempre mio – delle diverse esperienze che facciamo. In filosofia, questa mi sembra una visione della conoscenza di stampo kantiano dove il problema fondamentale della conoscenza appare la distinzione tra ciò che è soggettivo (a priori) e ciò che è empirico (a posteriori). Il Self che ne deriva, pur essendo di tutt’altra pasta rispetto a quello del cognitivismo rappresentazionale, permane fortemente slegato dal mondo che abita, poiché ogni conoscenza appare centrata sulle possibilità conoscitive del soggetto (i suoi limiti strutturali), delineando una netta demarcazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza.

Però, nelle sue ultime lezioni Vittorio citava Husserl, Heidegger e Paul Ricoeur. Ad esempio: “…Su questo punto ha fatto la rivoluzione, in questo secolo, Heidegger, con la sua distinzione tra ontico e ontologico. A partire dal periodo post-kantiano fino ai giorni nostri, abbiamo sempre confuso l’ontico con l’ontologico. Con ontologico s’intende l’esperienza diretta, mentre con ontico s’intende il parlarne. Noi ci siamo comportati, da dopo Kant in poi, come se il mondo fosse pieno di oggetti ontici, è sparita l’ontologia che è questa irripetibilità dell’essere, dove conoscere è esistere e, in quanto tale, solo una piccola parte può essere verbalizzata. Tutta la rivoluzione di Heidegger è stata quella di richiamare la distinzione irriducibile tra ontologico e ontico; certo, il linguaggio è lo strumento di trasformazione ontica per eccellenza perchè, per sua natura, separa il contenuto affettivo dall’informazione e rende l’affettività stessa una informazione..” (Guidano, 1999). Ora, da Husserl a Ricoeur, attraverso Heidegger, Merleau-Ponty, Michel Henry e Gadamer (tra gli altri), la prospettiva del Sé appare radicalmente trasformata rispetto all’Io (Sé) kantiano. Inoltre, questa nuova visione del Sé appare corroborata sia dalle ricerche neuroscientifiche sia dagli studi di psicologia dell’età evolutiva sui neonati. L’ipseità (l’essere mio dell’esperienza) è un processo pre-riflessivo, e il Sé dell’identità narrativa emerge come una vera e propria riappropriazione che si dispiega nel tempo. L’ipseità è già data e il Sé diventa un “obiettivo” e non un punto di partenza come descritto nella biologia della conoscenza di Maturana o nell’ordine sensoriale di Hayek. Ecco, vorrei sapere come coniugare la visione costruttivista del “Sé” di Vittorio Guidano dopo queste sue straordinarie incursioni nella fenomenologia di Husserl, nel Dasein Heideggeriano e nella fenomenologia ermeneutica di Ricoeur. Stava cambiando qualcosa?

ARCIERO: Certamente la svolta che Vittorio stava assimilando nei suoi ultimi anni era quella del passaggio alla fenomenologia ermeneutica, come tu hai sottolineato. Si può rintracciare questa trasformazione del suo pensiero già nella seconda metà degli anni novanta quando introduce il tema dell’identità narrativa che io avevo portato a Roma da Santa Barbara. Soprattutto in alcune conferenze cilene lui cerca di coniugare questa nuova prospettiva che proveniva da una tradizione estranea alla sua formazione – la fenomenologia ermeneutica – con l’approccio biologico alla conoscenza. Ma questa impresa che io già avevo tentato in due papers alla fine degli anni ’80 (Arciero 1989: Arciero e Mahoney 1989) e poi sviluppato per oltre un decennio fino a “Studi e Dialoghi” (2002) si sarebbe rivelata impossibile proprio per il differente fondamento su cui le due tradizioni erano basate. Solamente alla luce di questo sforzo si comprendono le lezioni del suo ultimo anno (pubblicate sul sito IPRA), così come l’articolo scritto insieme nel ’98 e apparso nel 2000 nel libro di Neymeier e Raskin.

L’impossibilità dell’impresa aveva a che fare proprio con il problema del sé ed io aggiungo dell’identità personale ed affondava le radici in un pensiero che -dal Timeo di Platone passando per Suarez, Descartes, Kant fino alla cibernetica di primo e secondo ordine- aveva concepito il sé alla stregua di una cosa creata, di un ens creatum. Questo modo di affrontare il problema aveva usato, per parlare del sé, le stesse categorie ontologiche utilizzate per concettualizzare gli oggetti, le cose. Il sé era inteso come ciò che attraverso la molteplicità dei comportamenti si mantiene identico nel tempo. Dalla res cogitans all’io puro fino ai sistemi complessi o lontani dall’equilibrio o ai sistemi chiusi, il tema di fondo è che la psicologia parla del sé come di una cosa; secondo la magnifica espressione di Paul Ricoeur (1990; 1991; 2000), parla di un sé che è nessuno. La differenza fra ontico e ontologico a cui Vittorio fa cenno nel brano che citi, consiste esattamente in questo: il sé non più inteso come una cosa ma come un chi. Qui si colloca la rivoluzione Heideggeriana ( 1962, 1984; 1988; 2001).

Ciò inevitabilmente cambia la posizione del problema perché si tratta di dover rendere conto della unicità di una persona a partire dai suoi modi di essere che non sono più riducibili o riconducibili alla dinamica interna di un sistema. Porre il problema del sé in questa prospettiva significa dover rendere conto di un essere sé, di una ipseità, che non è già data come se fosse un oggetto presente (ousia) ma che è sempre nell’atto di farsi. Non si tratta più cioè di afferrare il sé attraverso un atto di riflessione ma di coglierlo a partire dalla comprensione dei suoi modi effettivi di esistere: di afferrare il come l’essere sé è presente a se stesso, è cosciente pre-riflessivamente di sé nella sua quotidianeità, nella sua esperienza concreta, alla luce dell’avere a che fare con questo e con quello. Se fare esperienza corrisponde all’essere presso le cose con cui abbiamo a che fare, se la coscienza non è nient’altro che l’apertura dell’esistere dell’uomo a “soggiornare” nel mondo, allora la coscienza non è chiusa ma è nel mondo. Ciò significa che esistere è essere già sempre aperti a… essere in rapporto con… essere presso di… La coscienza di sé sottintende cioè un rapporto più fondamentale, più iniziale, più originario che la costituisce e la rende possibile: la relazione con il mondo, il rapporto con l’altro da sé.

Tralascio tutte le straordinarie conseguenze che un approccio di questo genere produce per sottolineare un altro fatto condannato a rimanere nell’ombra dalla psicologia moderna. Il sé non è l’identità, o meglio: l’ipseità, l’essere mio dell’esperienza, non è la sua riconfigurazione narrativa. Se non si capisce questa distinzione –che non ha nulla a che fare con la differenza tacito/esplicito- è impossibile comprendere come l’appropriazione dell’ esperienza sia alla base della costituzione dell’identità personale. Per chi –senza saperlo– pensa il sé come se fosse un oggetto presente la differenziazione fra il sé e l’identità personale non ha senso.

È evidente che questi due fenomeni non potevano essere colti da una visione che afferrava il significato solamente attraverso l’atto riflessivo: nella spiegazione della esperienza immediata. Questo modo di intendere il sé non poteva distinguere il sé dall’identità perchè il significato nasceva dalla riflessione, o dalla spiegazione, o dalla meta-rappresentazione. Inoltre questo modo di intendere apriva un processo di regresso all’infinito in quanto per identificare uno stato mentale come il proprio sarebbe stato sempre necessario uno stato di ordine superiore attraverso cui dare significato. Ciò era già stato visto con chiarezza da Kant nella seconda edizione della Critica della Ragion Pura.

Comprendere fino in fondo la grande lezione di Ricouer sull’Identità Narrativa significava pertanto ripensare seriamente il problema del sé a partire dagli studi di Heidegger. Il sogno costruttivista di MacCulloch (1965) diventava incommensurabile con questo modo di guardare l’ipseità, mentre il cognitivismo si rivelava una impresa senza fondamento. Ma Guidano non ebbe il tempo per affrontare questi problemi che nei suoi scritti rimangono confusi.

LICCIONE: questo passaggio critico dal cognitivismo post-razionalista alla fenomenologia ermeneutica può essere sintetizzato, come hai detto in modo molto chiaro, con: “l’essere mio” dell’esperienza non è la sua riconfigurazione narrativa”, e “il Sé non è più inteso come una cosa ma come un Chi”. La tua riflessione mi porta sia al tema del corpo come una delle alterità costitutive dell’ipseità (Ricoeur, cit.), sia alla dialettica tra corpo-oggetto (Körper) e corpo-vivo (Leib) che da Husserl (2000; 2001) in poi ha caratterizzato una parte importante delle riflessioni sulla persona. Inoltre, seguendo l’analitica esistenziale di Heidegger, il nostro essere gettati nel mondo e l’essere da sempre presso le cose implica un corpo che è molto diverso dal corpo-medium quale può essere il corpo autopoietico a la Maturana e, di rimando, per l’approccio di Vittorio Guidano.

ARCIERO: Questo è un tema che non ha mai particolarmente interessato Vittorio. Per quel che concerne la scuola Cilena le riflessioni di Maturana non fanno mezzo passo avanti rispetto a Ravaisson (1839) che agli albori della biologia aveva considerato l’Organizzazione indivisibile della vita come la condizione necessaria dell’esperienza soggettiva.

Certamente la grande riflessione di Husserl che inizia nel 1907 con Ding und Raum e che attraversa la sua produzione fino alla V meditazione cartesiana (1960) e agli scritti inediti sull’intersoggettività (1973) inaugura e consolida una ricerca che porta in scena il corpo vissuto al posto del corpo dell’anatomia patologica. Su questa linea si sviluppano gli studi di Merleau–Ponty che hanno fornito un frame interpretativo a gran parte delle attuali ricerche in neuroscienze. L’esempio più significativo è quello dei neuroni specchio.

Io vorrei però soffermarmi su un altro aspetto che dalla ontologia arriva alla psicologia in maniera diretta. Se l’esperienza che noi facciamo non è che un modo di incontrare di volta in volta il mondo e gli altri, il corpo proprio corrisponde alle diverse modalità attraverso le quali accediamo sia all’uno che agli altri. L’essere incarnati cioè corrisponde al come ci si avverte di volta in volta situati ma contemporaneamente a come appare il mondo. Come abbiamo detto, è proprio attraverso le diverse maniere in cui incontra il mondo e l’altro che l’ipseità svela ciò che è significativo e scopre contemporaneamente una propria modalità di essere. Ebbene, questo sentimento della situazione in cui effettivamente si è -il fatto cioè di essere in un certo stato emotivo- riguarda sempre un modo di trovarsi ed un modo di disporsi in relazione a quella certa circostanza. Da questo punto di vista quindi il carattere fondamentale dell’emozionarsi consiste proprio in questa struttura per cui un modo di sentirsi si riferisce ad una situazione, e reciprocamente la situazione mostra la sua significatività illuminandosi secondo un modo di sentirsi (Arciero 1989).

Non solo, ma da questa prospettiva l’e-mozionarsi è già a livello pre-riflessivo il significato incarnato (pre-riflessivo) della situazione in corso avvertito come un modo globale di sentirsi e contemporaneamente come un dominio relazionale. Qui incontriamo la famosa Befindlichkeit, l’essere situato emotivamente, che resta il tema inarticolato di Essere e Tempo. Inoltre è proprio a partire da un certo modo di percepirsi che si aprono delle possibilità di agire relativamente alla condizione in cui ci si trova. Abbiamo a questo proposito appena completato uno studio fMRI con Vittorio Gallese e il suo gruppo di ricerca relativo al rapporto fra emozioni ed azioni che ha prodotto dati di grande interesse. È su questo spazio interpersonale caratterizzato dalla polarita’ ‘corpo proprio- alterita’’ che occorre soffermarsi poiché qui l’ontologia da’ la possibilità di pensare una psicologia che trova nel corpo proprio il suo fondamento. Infatti, a seconda della modalità di emozionarsi muta l’enfasi -nell’ambito di questo spazio- sul corpo proprio o sull’alterità e conseguentemente l’inclinazione della stabilità personale. Nel primo caso il centro gravitazionale di questa dialettica sarà spostato su un contesto di referenza centrato in modo predominante su coordinate relative al corpo proprio dando luogo ad un senso di stabilità prevalentemente focalizzato su stati “interni” (Inward). Nell’altro caso la più rilevante focalizzazione su aspetti contestuali farà gravitare quello spazio su un frame referenziale che usa un sistema di coordinate ancorato sull’alterità, dando cosi’ luogo a un senso di permanenza orientato maggiormente su riferimenti “esterni”(Outward). Da quest’altra prospettiva è soprattutto evidente che l’alterità -intesa come tipo di ancoraggio attraverso cui mantenere la stabilità nel tempo (persone, contesti, immagini, pensieri, regole etc.)- diventa la sorgente di informazione per riconoscere l’ esperienza emotiva personale divenendone quindi parte.

Queste due polarità inward-outward delimitano un continuum su cui possono essere lette le varie combinazioni emotive individuali. È quindi a partire dal corpo che noi pensiamo sia la psicologia che la psicopatologia ed è a partire dal corpo che noi incontriamo le neuroscienze.

LICCIONE: Passare dall’ontologia heideggeriana alla psicologia attraverso il corpo-proprio e la sua “gettatezza” mi sembra una forma di riduzionismo intelligente dove le descrizione del funzionamento dei livelli sub-personali non sono, tout-court, descrizioni del funzionamento dell’individuo. Prima di affrontare il tema delle neuroscienze e del loro rapporto con la psicologia, vorrei però approfondire il continuum inward-outward e il rapporto con gli stili di personalità. Come coniugare, se il caso, una lettura ermeneutico-fenomenologica dell’essere umano con lo schema inward-outward/field-dep-field-indep, e i quattro stili di personalità che ne emergono? Inoltre, qual è il ruolo dell’attaccamento nella formazione del dominio emotivo individuale? Ho l’impressione, come hai accennato in precedenza, che il tentativo di coniugare la teoria dei sistemi auto-organizzati con l’ontologia heideggeriana e la fenomenologia ermeneutica qui debba cedere il passo.

ARCIERO: Credo di avere ampiamente affrontato la questione delle organizzazioni di significato personale insieme a quella dell’attaccamento nel saggio dal titolo “Il carattere e la Personalità” del mio “Sulle tracce di Sé”, spinto da una constatazione concreta. Una delle caratteristiche che marcava gli allievi dei training e che continua a caratterizzare il gergo di chi non ha mai finito di essere allievo è quello di parlare delle persone chiudendole in un ritratto. Per cui Paolo o Giovanna diventano, ad esempio, un fobico o una dappica. È evidente che non fa nessuna differenza dire di Paolo o di Giovanna che l’uno sia nato sotto il segno del cancro e l’altra sotto quello dei pesci. Quest’operazione dissolve la storia personale nella costruzione di un ritratto determinato da una riconfigurazione del passato che come un lascito “fatale” definirà per sempre il proprio orizzonte d’aspettative. Per mezzo della tipizzazione, la temporalità perde il suo carattere inquietante poichè la storicità dell’esperienza viene riferita -attraverso l’applicazione di categorie- a forme assolutamente valide. Così, mentre la storia è trasformata in un oggetto contemporaneamente è ignorato quel rapporto fondamentale con la storicità come noi la incontriamo nella vita.

In psicologia i presupposti di questa operazione di categorizzazione, che pretende di rendere conto dei significati generati dalla persona nel corso del proprio arco di vita, sono rappresentati da quelle due “fantasticherie” –come le chiamano Magai e Haviland-Jones (1995; 2002)– che continuano a riempire gran parte della letteratura sullo sviluppo: la nozione di “esperienze precoci” (pedogenesi) e la dottrina della “continuità” attraverso la ripetizione. Ancora una volta, ciò che rimane completamente impensato in questo modo di intendere la persona è il suo Chi!

Io, tu, lei o lui è ridotto a ciò che rimane invariante nel tempo; al sistema, all’organizzazione di questo/i pattern/s si da il nome di identità. La confusione diventa ancora più acuta quando quella identità la si fa coincidere con la organizzazione emozionale sovrapponibile all’attaccamento: programma computazionale che mi determinerà per sempre!

Il problema di una psicologia delle emozioni che trovi fondamento in una ontologia del corpo e che sia in grado di aprire un dialogo con la ricerca neuroscientifica parte dall’esperienza fattuale. Quando parliamo di ipseità parliamo di una dimensione preriflessiva che riguarda sempre il significato sentito di una certa situazione ed un modo di disporsi in relazione a quella circostanza. L’emozionarsi non può esserne separato come se quel rapporto originario non ne facesse parte, come se l’emozione fosse una condizione causata da questo e da quello e che si presenta di per sé. Quindi le polarità inward ed outward caratterizzano proprio un modo di posizionarsi come essere-nel-mondo, prevalentemente in termini ‘body-bounded’ per la tendenza inward e ‘world anchored’ per la disposizione outward. Evidentemente a questi diversi modi di sentirsi situati corrispondono dei tipi peculiari di emozione oltre che l’attivazione di differenti circuiti neurali. Abbiamo per esempio appena “sottomesso” una ricerca fatta con l’fMRI dove dimostriamo che a questi modi dissimili di avvertirsi corrispondono modalità diverse di percepire la sofferenza del proprio partner (Mazzola et al, submitted). È necessario sottolineare che questo nostro approccio allo studio delle emozioni permette di raccogliere attraverso uno sguardo sinottico la prospettiva di James e dei neo-Jamesiani come Prinz e Damasio, quella dei cognitivisti ‘riformati’ come Solomon, quella dei costruzionisti sociali come Averill, e Harrè quella dei transazionalisti come Fridlund, Parkinson o Russel e quella evolutiva di Tomkins, Ekmann e Izard.

Con l’ipseità si affaccia inoltre una forma nuova di intendere la relazione fra l’esperienza di sé e la permanenza di sé nel tempo. Non più la variabilità dell’esperienza ricondotta a ciò che resta identico, ma un trovar-si di volta in volta come il medesimo nella misura in cui ci si ritrova nelle medesime circostanze secondo le medesime tonalità emozionali. Introduciamo qui un altro elemento che gioca un ruolo fondamentale nella nostra prospettiva: la medesimezza. Questo nozione che attraversa tutta la fenomenologia fino a giungere in Ricoeur a costituire insieme all’ipseità (e spesso sovrapposta ad essa) una delle due polarità dell’esperienza antepredicativa trova la sua prima concettualizzazione in Heidegger nelle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele del 1922 (2001).

La relazione fra l’esperienza attuale e possibile di sé (ipseità) e l’inclinazione di sé (medesimezza) che muta via via con il maturare della vita è una delle grandi dialettiche che caratterizza la struttura ontologica preriflessiva.

Il presentare il problema del significato dell’esperienza sotto questa nuova luce porta il tema dell’identità personale ad un livello di articolazione distinto da quello del Self ed il linguaggio gioca un ruolo centrale. La persona appare infatti attraverso la riconfigurazione dell’esperienza che è portata al racconto proprio attraverso il linguaggio. La ricomposizione di accadimenti nella storia di una vita mentre integra il sentire e l’agire in una connessione narrativa (intrecciandoli insieme con esperienze possibili e con quelle già fatte) fornisce l’identità, la stabilità di sé nel tempo, al protagonista di quelle esperienze. Sulle tracce di Paul Ricoeur (cit.) consideriamo la costruzione dell’Identità Personale come un processo di interpretazione, appropriazione e riconfigurazione della esperienza preriflessiva.

Lascio da parte la psicopatologia a cui ho dedicato con Bondolfi “Selfhood, Identity and Personality Styles” (2009) che sta per uscire con la Wiley. Voglio solamente concludere dicendo che quegli “oggetti” che io ho chiamato Stili di Personalità e che sono per me assimilabili ai “tipi ideali” di Max Weber, mentre rendono possibili uno spazio di dialogo con le scienze naturali lasciano fuori la comprensione dell’unicità dell’esperienza personale e della storia singolare di una vita. Continuo a sottolineare con veemenza che ricostruire la logica della narrazione non significa interpretare la storia di una vita.

LICCIONE: proprio Weber (1997) sosteneva che l’ideal-tipo è un concetto limite, ci serve per riconoscere un processo a partire da n-invarianti. È una misurazione. Certamente una persona non è totalmente riducibile a uno schema, nemmeno se gli schemi fossero pari al numero gli esseri umani che hanno vissuto, vivono, vivranno. Allo stesso tempo questi schemi ci consentono di fare ricerca, di sintetizzare l’essere umano in poche caratteristiche, pur nella convinzione che quell’essere umano così schematizzato non è nessuno, è un “non-Chi”. Visto che abbiamo toccato il tema dell’identità narrativa ci siamo avvicinati al problema del linguaggio. Possiamo declinare in termini neuroscientifici il problema dell’azione e del suo rapporto col linguaggio, tenendo conto che proprio Ricoeur, in tempi non sospetti, si è soffermato su questo rapporto per fondare una parte essenziale del metodo ermeneutico-fenomenologico? Ho l’impressione che qui si incontrino diverse discipline quali l’ermeneutica, la fenomenologia, la psicologia e, appunto, le neuroscienze.

ARCIERO: Hai ragione. Questi “oggetti” ci consentono di fare ricerca ma troppa gente li utilizza in psicoterapia come uno strumento interpretativo, riducendo quindi la persona che si ha di fronte ad un “non-Chi”. Questa mancanza di consapevolezza ermeneutica, come se Freud non fosse mai esistito, è una delle caratteristiche che accomuna molte correnti di psicoterapia. La persona perde le caratteristiche di unicità e diventa oggetto di applicazione delle teorie del terapista.

Ma non voglio andare oltre, poiché mi preme soprattutto rispondere alla tua domanda sulla relazione fra il sentire e l’agire da un lato e la riconfigurazione narrativa dall’altro. È evidente che il linguaggio gioca un ruolo chiave perché è attraverso esso che è possibile appropriarsi del significato della propria esperienza ma anche di comunicarne il senso. D’altro canto afferrare il senso di una frase corrisponde alla capacità di com-prendere contemporaneamente la propria esperienza. È il contenuto di senso infatti che, attualizzato di volta in volta dai singoli parlanti attraverso la referenza concreta al proprio dominio esperienziale  permette di com-prendere l’esperienza comunicata. Come dice Liberman, “what counts for the speaker must count for the listener”.

Se questa prospettiva è corretta la speech perception dovrebbe condividere un substrato neurale comune non solo con le regioni deputate alla produzione del linguaggio – per quel principio di “parity” fra il “sender and the reciever of a message” invocato da Liberman (2000) – ma anche con le aree inerenti la percezione – esecuzione dell’azione. Una serie di studi sviluppati dal gruppo di Parma sostengono questi due punti. L’equivalenza nella corteccia premotoria umana tra aree che rispondono sia all’esecuzione sia all’osservazione dell’azione e aree attivate dalla descrizione verbale delle stesse azioni indica che il senso è fondato nell’azione e passione, che il linguaggio è radicato nell’esperienza del rapporto con il mondo. Il discorso quindi rifigura nel dominio linguistico ciò che accade nel dominio dell’agire e del sentire, ed è proprio su questa possibilità di riferirsi al mondo in questo o quel modo che esso viene a regolarsi per ognuno di noi. E così la narrazione, come modo del discorso, compone ciò che già è pre-riflessivamente manifesto. Attraverso questo atto mentre mi approprio della mia esperienza contemporaneamente mi riconosco e mi identifico in essa. L’operazione narrativa inserisce la mia singola azione nel contesto di una trama che ricompone in una unità coesa azioni e passioni che mi riguardano in quanto protagonista del racconto. Hai quindi ragione nel dire che la fenomenologia, l’ermeneutica, la psicologia e le neuroscienze si snodano da questo luogo comune. La pratica terapeutica che io insegno parte da questi presupposti.

LICCIONE: vorrei concludere con alcune riflessioni su Vittorio Guidano. All’inizio della nostra conversazione hai detto che il tema dell’identità narrativa l’hai portato tu da Santa Barbara e Vittorio lo ha accolto nell’ottica di un ulteriore sviluppo teorico che non ha avuto il tempo di compiere (ma poi si è compiuto…). Ho sempre pensato che un vero Maestro si faccia accompagnare dagli allievi nella speranza che questi apprendano come si sviluppa la conoscenza e non si limitino a imparare e ripetere a memoria gli insegnamenti. Un vero Maestro si vede dalla successiva attività degli Allievi. Ecco, dal punto di vista umano, chi era Vittorio? Tu hai condiviso con lui e con Mike Mahoney molte esperienze, immagino non solo scientifiche. Qual è l’eredità “umana” di Vittorio Guidano?

ARCIERO: Il tema dell’identità narrativa che Vittorio ha cercato di integrare nel suo modello può essere compreso solamente nel contesto di una reciprocità amicale che ha caratterizzato il nostro rapporto sin dalle discussioni su Kant dei primi anni ’80. Come mi scrisse nella dedica autografa su Complexity: “abbiamo guardato insieme nella stessa direzione”, per molti anni. Insieme ma ognuno secondo il suo sguardo. Io ho appreso da lui agli inizi degli anni ’80 la tematica dell’auto-organizzazione integrata a quella dell’attaccamento ed alla fine degli anni ’90 è lui che mi ha introdotto ai lavori di Witkins. Ma questi sono solo gli aspetti intellettuali di un sodalizio, di cui anche Mike era parte, fatto di viaggi, di musica, di letteratura, di cinema, di avventure e soprattutto di una frequentazione quotidiana che ha intrecciato le nostre esperienze nel tempo. Quando Vittorio è morto io ho perso il mio migliore amico. È alla celebrazione di questo sodalizio che è dedicata ogni anno la Guidano and Mahoney Memorial Lecture in cui invitiamo personaggi di fama internazionale per onorare i due amici perduti.

Tu poni la questione degli allievi. Io credo che Vittorio si sia posto questo problema solo qualche tempo prima di morire quando l’Ipra, da una struttura costruita sulla carta per organizzare il congresso di Siena del ’98, doveva essere trasformata in una scuola di formazione. Fu un periodo molto burrascoso per lui perché si rese conto che persone che gli erano state più o meno vicine non erano all’altezza di questi nuovi compiti. Molte di queste persone che oggi parlano a suo nome e lo celebrano come maestro facendosi paladini del post-razionalismo furono da lui allontanate dall’Ipra l’estate prima della sua morte. Rispetto ad altri che si sono dichiarati suoi allievi arrogandosi il diritto di pubblicare libri a suo nome, evocando quel Cicikov delle “Anime morte” di Gogol posso solamente manifestare il mio sdegno. In tutti i casi però è evidente un fatto: costoro non hanno fatto una ricerca, non hanno scritto un articolo, non hanno pensato un’idea, non hanno sviluppato un concetto, non hanno compiuto mezzo passo che non sia una ripetizione approssimativa di quello che Vittorio aveva detto o scritto. Da parte mia posso solo rivolgermi a costoro con le parole di Nietzsche: “Si ripaga male un maestro se si rimane sempre soltanto l’allievo”.

Alla tua domanda sull’eredità umana di Vittorio Guidano è difficile rispondere. Ciò che maggiormente mi manca è quella sua intelligenza folgorante tessuta con un’ironia amara che improvvisamente si apriva in una risata.

LICCIONE: è una bella immagine…Io ho conosciuto i lavori di Vittorio Guidano alla fine degli studi universitari, all’inizio degli anni ’90 a Padova. Il clima della psicologia clinica era centrato sulle diverse psicoanalisi post-freudiane mentre l’approccio cognitivista costituiva invece il paradigma dominante della ricerca di base e della neonata neuropsicologia. La psicologia cognitivista che conobbi in quegli anni era tanto abile nello scomporre il suo oggetto di studio (il Self) che riusciva spesso a farlo sparire nel vuoto, come una magia, forse un furto. Ridurre un essere umano alla sua ansia, ai suoi rituali o ai suoi deliri mi sembrava un’operazione che pagava alle categorie e alla diagnosi il prezzo dell’eliminazione del suo vero oggetto di studio. I modelli mentali del cognitivismo nascondevano ogni volta l’essere umano che intendevano descrivere. Allo stesso modo la psicoanalisi spiegava tutto –sempre e comunque– finendo anch’essa per perdere di vista la persona e la singolarità dei suoi comportamenti. Con questi dubbi incontrai Vittorio Guidano in un suo lavoro pubblicato in un testo che la brava Wally Festini, allora docente di teorie e tecniche della dinamica di gruppo, aveva inserito tra i libri a scelta del suo esame; mi sembra si intitolasse: psicoterapeuti, teorie e tecniche, della Franco Angeli. Divorai il capitolo di Vittorio. Anche questo mi spinse a iscrivermi alla scuola di Torino dove Vittorio faceva lezione. Però, solo nel 1998 al convegno dell’IPRA di Siena ebbi modo di parlargli il tempo sufficiente per conoscere l’uomo. Un pomeriggio, durante una pausa, chiacchierammo sul concetto di autopoiesi dedicandogli il tempo di due Marlboro rosse. Non mi sembrava più così convinto della teoria dei sistemi auto-organizzati quale chiave esplicativa del funzionamento emotivo-comportamentale umano. “Eppure i convegnisti sono molto contenti” gli dissi. E Vittorio, con quella risata che tu hai disegnato prima rispose: “Già…anche i convegni sono autopoietici!”.

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ntervista di Davide Liccione

 

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